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VOCI DA UNA TORINO CHE CAMBIA
Da città industriale a città industriosa

Edizioni Gruppo Abele - Acmos , 2006
160 pagine, bianco/nero, no illustrazioni,
cop. in brossura, dim. 14 x 21 cm .
€9 
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| Descrizione | Autori | Indice | Un estratto

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UN ESTRATTO

GUARDARE AL DI LÀ DI TORINO di Luciano Gallino - Professore emerito di Sociologia presso l'Università degli Studi di Torino.

Quanto sono centrali i trust di potere economico-finanziario e come si potrebbe riportarli sotto un controllo democratico, legato a un certo territorio?
Sul piano mondiale, riportare in blocco quei poteri sotto una qualche forma di controllo credo sia un'impresa disperata, perché nel tempo hanno accumulato così tanti capitali che i più grandi investitori muovono portafogli dell'entità di oltre 30.000 miliardi di dollari, cioè poco meno del PIL mondiale. In altre parole hanno un portafoglio che equivale circa al PIL del mondo in un anno, e lo possono spostare da un'impresa a un'altra con estrema facilità, a colpi di click o con una telefonata. Questi poteri sono difficilmente controllabili in blocco, ma ci sono delle strade alternative percorribili. Si tratta di soluzioni minori, ma che comunque possono dare qualche risultato. Credo, ad esempio, che andrebbe ripensato e ristrutturato il processo tra economie regionali ed economie globali, perché bisognerebbe distinguere (e questo la politica potrebbe/dovrebbe farlo) che cosa conviene produrre in un ambito regionale e cosa invece è bene venga prodotto su scala mondiale, per la convenienza sia del Paese che produce, sia di chi acquista. Si parla in termini di convenienza dei prezzi e di vantaggi comparati. Oggi l'economia globalizzata ha delle componenti grottesche, perché finisce col distruggere l'economia locale e regionale, con il gravissimo rischio che, qualora ci siano momenti di crisi da altre parti, l'economia locale non riesca a far fronte ai problemi e ai bisogni. Questo dovrebbe essere un fatto trattato dalla politica sia a livello territoriale sia su vaste aree, anche a livello dell'Unione Europea. L'Unione Europea è essa stessa un "fortino neoliberale" e l'attuale Commissione è la più neoliberale che ci sia mai stata. Questo tentativo di ridefinire i confini tra locale e globale potrebbe sicuramente essere tradotto in un progetto politico.
Vi sono poi altri aspetti su cui la politica può incidere; uno dei prodotti drammatici della globalizzazione sono le forti disuguaglianze, che si sono generate sia a livello internazionale sia a livello nazionale. L'Italia è un Paese sempre più diseguale, ma lo sono anche la Francia, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti; per non parlare delle disuguaglianze a livello mondiale, su cui è stata richiamata l' attenzione con l'ultimo rapporto sullo sviluppo umano promosso dalle Nazioni Unite. I dati sono pesanti e sottolineano forti diversità, soprattutto riguardo all' aspettativa di vita, alla mortalità infantile, ecc.
La distribuzione delle risorse è un' attività da sempre esercitata dalla politica, che potrebbe essere rivalutata con un'adeguata politica fiscale e una nuova regolamentazione dello stato sociale. Il taglio alle pensioni, il taglio al TFR, che stanno passando quasi come se nulla fosse, sono in realtà interventi aggressivi in ambito distributivo, perché tutto ciò passa dall' essere finanziato dal contributo collettivo all'essere finanziato dal singolo individuo: incaricare il singolo di finanziare integralmente la propria pensione è equivalente ad aumentargli le tasse del 30%. E questo mentre le tasse sono diminuite per chi guadagna milioni di euro.
La re-distribuzione delle risorse economiche a livello nazionale e internazionale è un compito che spetta alla politica e che la politica dovrebbe riassumere in pieno, dandosi strumenti adatti ai tempi.

Veniamo a Torino: cosa c'è alla base dello sviluppo di Torino, di questo modo di intendere il futuro di Torino, che era nel Primo Piano Strategico e che nel Secondo Piano Strategico è in discussione?
Sicuramente ha pesato, ma non soltanto per quella parte neoliberale che riguarda la deregolazione e l'uscita dal pubblico in favore del privato, ma anche per la componente ideologica, cioè l'idea che si possa tranquillamente procedere a forme di deindustrializzazione avanzata e si possa completamente trasformare la città nel senso postindustriale. Mi pare però che negli ultimi due o tre anni ci siano stati vari ripensamenti da questo punto di vista. Tempo fa molti dicevano, o lasciavano intendere: «Se anche la Fiat scompare, chi se ne importa, noi avremmo il turismo, le Olimpiadi, le economie della conoscenza», anche se, a scendere nel particolare, queste economie della conoscenza nessuno sa bene cosa siano. Mi pare invece che oggi si sia più cauti, ci sia maggiore attenzione ai problemi che riguardano l'industria. Ha però pesato molto il fatto che per anni si sia pensato che demolire l'impianto industriale di Torino e del Piemonte, in fondo, non avesse molta importanza. Si veda, ad esempio, cos'è successo a Ivrea. Ivrea e il Canavese ora sono il "deserto" e qualcuno ha chiamato quanto si è verificato in queste zone - senza usare un'espressione troppo fuori luogo - un omicidio industriale: lì c'erano fabbriche con 25.000 operai; adesso ci sono un po' di cali center e tante piccole fabbriche, che stentano terribilmente a diventare tessuto, a diventare distretto. Torino dovrebbe guardare un po' di più a cos'è successo nel Canavese, dove era stato teorizzato che in fondo produrre beni o servizi tangibili non importava più e che si poteva andare verso una qualche fonte economica di conoscenza. C'è sicuramente stata una corrente neoliberale anche nelle forze di centrosinistra, ma molti problemi sono stati il risultato di una scarsa cultura su ciò che significa industria, su quali possano essere le sue effettive trasformazioni. ... continua sul libro

UNA FIAT CHE NON C'È PIÙ Comitato Cassintegrati Mirafiori

MICHELE ANSELMO
Come è arrivato alla Fiat?
Mi chiamo Michele Anselmo, ho 50 anni e vengo dalla Puglia.
Sono immigrato a Torino all'età di 15 anni e sono entrato in Fiat nel 1972 come allievo. Avevo 17 anni. Ho fatto un anno l'apprendista, poi ho fatto sei mesi come operaio specializzato e poi, siccome di sera frequentavo una scuola per disegnatore meccanico, mi sono diplomato grazie all' aiuto di uno degli insegnanti che era un funzionario Fiat. Era una scuola privata dell' ordine dei Gesuiti, l'Istituto Sociale, una delle più prestigio se scuole di Torino, frequentata dalla Torino benestante. Uno dei sacerdoti volle che questa scuola fosse utile anche ai lavoratori, così creò dei corsi gratuiti serali, chiedendo al rettore dell'istituto l'utilizzo delle aule e in cambio avrebbe rimborsato all'istituto le spese per il consumo dell'energia elettrica. Tutto poggiava sul volontariato degli insegnanti che svolgevano la loro attività gratuitamente, percependo un simbolico contributo per la benzina. Noi pagavamo solo 15.000 lire all' anno di iscrizione, che servivano appunto a coprire tali spese.
Grazie all' appoggio di questo insegnante fui trasferito negli uffici tecnici in qualità di disegnatore meccanico nel 1974.
Da quanto tempo è in cassa integrazione?
Sono in cassa integrazione dal maggio 2005, ci hanno prorogato la CIG di ulteriori tre mesi e credo che vogliano farci percorrere la stessa strada che hanno sperimentato i colleghi della Powertrain, che è più di tre anni che sono in cassa integrazione. Quindi sono 33 anni che lavoro in Fiat, a ottobre del 2006 avrei 35 anni di lavoro però a causa dell' appoggio del sindacato e della sinistra è stato accettato di portare a 40 anni di anzianità lavorativa l'età pensionabile e quindi mi tocca fare 40 anni di lavoro. La mia posizione è molto diversa dagli altri: quando sono entrato io, c'era una grande azienda, che era la Fiat, che viveva quasi esclusivamente sul mercato interno, per quasi 1'80%. Qualsiasi modello che la Fiat faceva il mercato lo recepiva: la Cinquecento, la Seicento, la 850; poi c'è stato un piccolo balzo con la 127. Allora le esigenze del mercato erano quelle: una macchina che costasse poco e che non desse tanti problemi. Queste erano le caratteristiche che la Fiat esaudiva. Quindi era competitiva nel mercato interno e non si preoccupava molto dell' esterno, di reggere la concorrenza estera.
Quando è iniziata la crisi?
La crisi è iniziata agli inizi degli anni Ottanta, gli italiani cominciarono ad essere più esigenti, avevano più ricchezza e quindi volevano un prodotto qualitativamente migliore. La Fiat è arrivata impreparata: non è stata una crisi di mercato, il mercato aspettava prodotti migliori. Ci fu il dramma del 1980 che io ho vissuto in prima persona, ma da una parte un po' diversa: non era consuetudine, da impiegato, condividere le scelte e le lotte operaie. Chi lo faceva era mosso da solidarietà, noncper convenienza perché c'era tutto da perdere. Mi ricordo che negli anni Settanta per avere 30.000 lire di aumento si facevano 200 ore di sciopero. Un impiegato poteva averne molti di più solo andando dal capo e impegnandosi a non scioperare. Dal punto di vista economico dunque non era conveniente però l'ho fatto perché la mia famiglia era operaia, mio padre aveva sei figli, era dipendente Fiat, è stato dieci anni in Germania. Non volevo assolutamente tradire questa mia cultura; ho scelto dei valori, al di là del prezzo che ho pagato, durissimo, perché in Fiat... continua sul libro

 

 

 

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