di Luigi Carbone

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Visto che in questo numero si parla già del Monte Bianco nel test, ho pensato di chiedere al mio amico Luigi di poter pubblicare il suo articolo, già apparso sul bollettino del Club Alpino Italiano di Genova-Bolzaneto, sulla sua avventura di due anni fa.
Non so quanti di voi si ricordano i 43 alpinisti bloccati alla Capanna Vallot a 4362 metri di quota alle pendici della vetta del Monte Biancoil 4 agosto 2000, ebbene, Luigi si trovava anche lui quel giorno in marcia verso la vetta, ma avendo ascoltato preventivamente le previsioni del tempo e con una buona osservazione del cambiamento in atto è riuscito ad evitare di trovarsi in quella spiacevole situazione.
Ma lasciamo spazio ora al suo racconto.

   Massimo Riso


Il titolo del quotidiano genovese: Il Secolo XIX


Quando ero più giovane andavo in montagna con meno costanza e più improvvisazione.
Almeno una volta l’anno, d’accordo con mio fratello o con qualcun altro, si tentava una sortita in quota. Partivamo e, senza alcun acclimatamento, andavamo a dormire più in alto possibile usando tutti mezzi di risalita a disposizione, naturali e meccanici.
Dopo cena mi sentivo male quasi sempre. Il giorno dopo, pur avendo dormito poco e male, la gita si portava a compimento.

Adesso no, non ho più voglia di questi patimenti acuti e prolungati. Prediligo gli itinerari un po’ più difficili ma a quote più basse e meno frequentati. Le rare volte in cui programmo qualche uscita a quattromila metri, cerco di allenarmi e acclimatarmi il più possibile.
Così è stato quest’anno.

Io e mia moglie Luciana, in più di quindici anni di attività, non siamo mai riusciti a salire sul M. Bianco. E non si può dire che non ci abbiamo provato, o, almeno, pensato molto. Maltempo e cattive condizioni della montagna sono stati gli ostacoli che ci hanno sempre fatto rinunciare o spesso neanche partire.
Ora avevamo pensato di stanziare un’intera settimana di ferie per stare qualche giorno in quota e … tentare il balzo al momento più opportuno. Il progetto era già bell’e pronto: 2-3 notti al rifugio Torino con una o due ascensioni minori, traversata al réfuge des Cosmiques e salita al Bianco per la normale dal Col du Midi.
Dovevano unirsi a noi Alberto e Stefania, contagiati forse dal mio entusiasmo.

Lo dovevo capire che non era il caso di intestardirsi. I segni premonitori negativi non erano mancati.

I miei suoceri, che avrebbero dovuto stare con nostra figlia in quella settimana, hanno avuto seri problemi di salute.
La baby sitter che doveva coadiuvarli ha ricevuto un’allettante proposta di lavoro
Alberto, circa un mese prima della partenza, si è fatto piuttosto male ad un ginocchio.
Stefania ha avuto improvvisi impegni di lavoro.
Il meteo per giovedì 3 Agosto (la data prescelta per la salita) prevedeva un peggioramento sicuro e deciso dopo 3-4 giorni di bello stabile.

E invece no, abbiamo cercato di tamponare, di cercare alternative. Ci siamo dati da fare per sistemare la bambina e ci siamo convinti che, anche da soli, ce l’avremmo fatta. Nel frattempo continuavamo a correre due volte la settimana per fare fiato, sfidando l’ironia dei dirimpettai al nostro passaggio.
 


Il Monte Bianco 4807 m

Domenica 30 Agosto, la partenza. Come previsto, abbiamo passato due notti al rifugio Torino, poi, il martedì, allarmati dalle orribili previsioni, abbiamo anticipato la traversata ai Cosmiques.
Il rifugio è incredibilmente accogliente e ben organizzato. Un’anticamera riscaldata permette di appendere ad asciugare scarponi e materiale, trovando tutto tiepido al momento del risveglio. La sala da pranzo è spaziosa, di legno chiaro piacevolmente decorato. Le camere sono ampie e razionali.
Insomma, una vera bellezza.
Il fatto incredibile è che io c’ero già stato! Evidentemente la scarsezza di ossigeno non permette di osservare i luoghi che si visitano né di godere delle comodità offerte. Questa volta, però, l’acclimatamento era buono e ho potuto assaporare una serata veramente piacevole.
Non altrettanto posso dire di un ragazzo inglese seduto al nostro tavolo: lo sguardo vitreo, il colorito terreo, l’espressione disgustata. Era in piena crisi di mal di montagna. La Guida che lo accompagnava gli ha propinato vari medicinali di dubbia origine, ma, all’arrivo della zuppa di cipolle, ha dovuto accomiatarsi da noi.
Alle 18.30 (cioè subito dopo cena) arriva il fax col bollettino meteo di Chamonix: peggioramento già prima della fine della notte, temporali anche violenti, invito esplicito a diffidare di temporanee schiarite.

La maledizione stava per colpire ancora e definitivamente.

Parecchio delusi ci avviamo a cercare di riposare, anticipando il più possibile la sveglia e sperando in un ritardo della perturbazione. In quel momento il tempo era ancora stupendo, così come alle 0.50 del giorno dopo, quando la sveglia suona.
Facciamo tutto in fretta e partiamo per primi, all’1.30. Con noi salgono circa 15 persone (un francese parte da solo dopo aver fotografato furiosamente … la notte), molti, scoraggiati, restano al rifugio.

Saliamo molto bene il pendio disseminato di seracchi mastodontici che porta alla spalla del Mont Blanc du Tacul, l’allenamento si fa sentire. Arriviamo alla spalla alle 3.45, da circa un’ora sono comparse nuvole e adesso nevica sottile e fitto. Non è necessario essere alpinisti esperti o fini meteorologi per decidere il da farsi: anche andando velocissimi ci servirebbero ancora 4-6 ore per arrivare in vetta più 3-4 per la discesa ai Grands Mulets. La situazione del momento e le previsioni non lasciano spazio ad indecisioni. Proseguiamo fino alla vicina vetta del Tacul (mannaggia, c’ero già stato!) e torniamo alla spalla.
Le tracce cominciano a riempirsi di neve e, incredibile, sei persone, tra cui il francese solitario, stanno proseguendo. Scorgiamo le luci delle frontali alla base del pendio che porta al Col du Mont Maudit.
Devo ammettere che, per pochi secondi, ho pensato di essere un coniglio, un pivello d’alta quota, un ciarlatano. Finite queste riflessioni, abbiamo iniziato la discesa.
Siamo di ritorno al Col du Midi alle 5.40, mentre comincia ad albeggiare. Qui non nevica, anzi, verso est si prepara un’aurora radiosa. Solo la pesante cappa di nubi sulle vette più alte fa sì che non ci prenda lo sconforto.
E’ ancora presto e decidiamo di traversare a piedi il ghiacciaio fino al rifugio Torino. Viviamo un momento magico: su quella pista normalmente affollata all’inverosimile non c’è nessuno, e durante la due ore e mezza di cammino necessarie incontreremo solo due ragazzi italiani che, come noi, hanno rinunciato alla salita. Uno sguardo reciproco e un’occhiata alla cima incappucciata del Tacul bastano per capire che abbiamo fatto la cosa giusta. Sostiamo seduti sulla corda ai piedi della Pyramide e godiamo intensamente di una gioia primitiva, irrefrenabile. Riprendiamo il cammino e, all’inizio del pendio che conduce al Col des Flambeaux, riprende la copiosa nevicata che, stavolta non smetterà più per circa 24 ore.
 


la Capanna Vallot a 4362 metri di quota
dove hanno trovato rifugio i 43 alpinisti

Non ho più pensato ai compagni di salita più determinati di noi fino a quando, comodamente seduto sul divano di casa, non ho distrattamente guardato la pagina 103 di Televideo: “Quarantatré alpinisti dispersi sul Monte Bianco”, “Oltre 40 persone bloccate in un bivacco a 4000 metri”.
Allora, con una pena infinita, ho pensato a quei 43 cocciuti chiusi per quasi 36 ore nella Capanna Vallot, a 4362 metri di quota. Chi la conosce può capire: una baracca di lamiera usata solo da chi non ne può fare a meno e che nessuno pulisce. Un vero immondezzaio d’alta quota. E, per giunta, piccolo. Il conto è presto fatto: sei persone provenienti dal nostro versante, le altre 37 dalle altre tre normali. In seguito si è anche saputo che due francesi non sono riusciti a rifugiarsi nella capanna, con conseguenze irreparabili.

Lo sappiamo tutti che l’alpinismo è un’attività che porta con sé una componente di rischio ineliminabile, che la montagna sicura, come dice spesso il nostro Reggente, è un ossimoro, cioè una contraddizione in termini, però…
A volte pare proprio che i monti siano visti come uno splendido Luna Park: vado, pago il giusto e poi salgo dove e come mi pare. Sembra che avere paura su una via normale non sia lecito, sia un marchio d’infamia.

D’altronde credo che sia di cattivo gusto fare i saggi sfruttando le disavventure altrui, forse anch’io, in un altro momento, avrei potuto infilarmi scioccamente in qualche situazione pericolosa. Quindi termino qui il pistolotto.
Resta ancora da annotare che mai una ritirata mi aveva procurato tanta gloria: i parenti lodano il nostro buon senso, i colleghi preoccupati si lasciano andare a pacche sulle spalle al nostro rientro in ufficio, persino i vicini di casa, mai stati oltre i 1000 metri, si sbilanciano dicendo “voi sì che conoscete il duro mondo delle vette!”.
E ora ripetiamo tutti in coro con Mauro: alpinista che torna, buono per un’altra volta!