Genova        
Numero 20, anno VI        
aprile 2006        

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  di Roberto Pedemonte


Horace-Bénédicte de Saussure
Incisione di Ambroise Tardieu

Lo scopo che ci prefiggiamo in questa nuova rubrica è quello di rivisitare pagine di cronaca e di storia della meteorologia del passato, tempi in cui l’uso di strumenti, seppur in crescita, era limitato a pionieri, tempi in cui la scienza meteorologica, ben lungi dall’essere organizzata e codificata come al giorno d’oggi, era riserva di pochi scienziati e appassionati che dedicavano ad essa la loro vita. Studiosi che hanno compiuto, nel corso della loro attività scientifica, esperimenti rivoluzionari, viaggi pericolosi, costruito strumenti innovativi o dedicato il loro tempo alla raccolta e delle osservazioni sui fenomeni dell’atmosfera, descrivendoli, misurandone i valori con apparecchiature non ancora normalizzate, spesso anche non confrontabili. Per raccogliere queste informazioni ci vengono incontro i libri ma anche i giornali dell’epoca, spesso entusiasti nel redigere sulle loro pagine le notizie di questa scienza in via di espansione. Uno di questi, “Avvisi Patrii”, settimanale genovese stampato tra il 1777 e il 1796, forniva resoconti, notizie e anche un’interessante raccolta di dati meteorologici rilevati nella città di Genova che avremo modo di pubblicare nel dettaglio nei numeri futuri della rivista.

In questa prima puntata della rubrica, che abbiamo voluto chiamare “Meteorologia d'altri tempi” per ricordare che è solo grazie agli uomini a cui si faceva cenno prima che si è potuti far progredire la Scienza, ci è sembrato interessante riproporre il resoconto che fece Horace-Bénédict de Saussure sulla spedizione che, insieme al figlio Theodore, fece al Col del Gigante nel luglio 1788, dopo quella più famosa durante la quale raggiunse la vetta del Monte Bianco il 3 agosto 1787. A spingerlo a compiere quest’impresa fu, come si leggerà, la possibilità di effettuare misurazioni alle alte quote non solo nelle ore centrali del giorno, come era avvenuto fino ad allora, ma poter verificare l’andamento dei “varj stromenti” lungo tutto il corso della giornata. Il soggiorno durò infatti ben sedici notti.


Il primo volume del Voyages dans les Alpes

Pubblicato su tre numeri degli “Avvisi” nel febbraio 1794, qui viene presentata in due parti (la seconda nel prossimo numero di RLMet). Si è ritenuto di non modernizzare il lessico e mantenere inalterata la traduzione che venne fatta all’epoca della pubblicazione: la descrizione particolareggiata delle difficoltà riscontrate durante la scalata e delle condizioni meteorologiche estreme alle quali sono stati sottoposti i partecipanti alla spedizione, una ventina di persone, è sì più difficoltoso a leggersi ma rende bene il sapore pionieristico dell’epoca in cui venne scritto.

Horace-Bénédict de Saussure fu scienziato ma anche naturalista. Nacque il 17 febbraio 1740 a Conches, vicino a Ginevra, da una nobile e illustre famiglia che diede alla storia numerosi uomini di scienza. Già a 22 anni fu nominato professore di filosofia e scienze naturali all’Università di Ginevra. A 34 ne fu rettore. Dal 1768 iniziarono i suoi viaggi nelle Alpi. Introdusse il termine “geologia” nel mondo scientifico, utilizzato nella sua opera più importante, la monumentale “Voyages dans les Alpes” (Viaggio attraverso le Alpi), resoconto di trent’anni di viaggi e studi lungo la catena alpina. La gloria di de Saussure culminò con la scalata al Monte Bianco che portò a termine, come già scritto, il 3 agosto 1787. Nella sua vita, dedicata alla scienza, scoprì numerosi minerali e, cosa che ci riguarda più da vicino, fece accurate misurazioni sull’umidità atmosferica, migliorò il termometro e l’anemometro e sviluppò l’igrometro a capelli, forse il suo strumento più conosciuto, e l’elettrometro, strumento per misurare l’elettricità potenziale grazie all’attrazione o alla repulsione di corpi caricati elettricamente. Dal 1794 la salute iniziò ad abbandonarlo e, a causa delle spese sostenute per le sue ricerche scientifiche, si trovò anche in ristrettezze economiche. L’illustre studioso ebbe però la solidarietà di numerose personalità che non scordarono quanto fosse stato il suo contributo al progresso della scienza. La morte lo colse il 22 gennaio 1799 e fu seppellito nel cimitero ginevrino di Plainpalais.


Da “Avvisi Patrii” n° 5 del primo febbraio 1794

I Fisici, ed i Naturalisti che propongonsi di visitare la vetta di qualche monte, prendono d’ordinario le loro misure in modo da giungervi sul mezzo giorno, e quando vi sono arrivati, si affrettano a fare le loro osservazioni per discenderne pria della notte. Si trovan essi per ciò sull’alte cime quasi sempre all’istess’ora, né vi si trattengono che per breve tempo, onde non possono formarsi una giusta idea dello stato dell’aria nelle altre ore del giorno, e molto meno in tempo di notte.


Ascensione al Monte Bianco

Mi parve cosa interessante il riempiere, a dir così, questa specie di lacuna nell’ordine delle nostre cognizioni atmosferiche, facendo un’assai lunga dimora su di un’alta cima affine di determinare l’andamento giornaliero di varj stromenti meteorologici del barometro, del termometro, dell’igrometro, elettrometro ec., e di cogliere l’occasione di osservare in quel luogo l’origine delle meteore differenti, come delle piogge, de’ venti, delle procelle ec.

A tal desiderio aggiungansi quello di tentare varie esperienze che risoluto avea di fare sul Monte Bianco, ma che la scarsezza del tempo, e’l disagio prodotto dall’aria troppo rarefatta, m’impedirono di eseguire.

Difficil cosa era il trovare un luogo convenevole. Io voleva collocarmi all’altezza di mille ottocento tese [3.500 metri circa, N.d.R] e in un luogo scoperto, ove i venti e tutte le meteore potessero liberamente spiegarsi. Non mi sarebbe stato difficile il trovare qualche vetta coperta di neve, la quale in se riunisse tali proprietà; ma non m’era fattibile il fissar sulla neve uno stabilimento durevole, per l’instabilità degli stromenti che vi si sarebbono collocati, sia a cagione del freddo, e dell’umidità. Era pertanto ben difficile il trovare sulle nostre alpi a tanta altezza, qualche rupe senza neve, accessibile, ed abbastanza spaziosa, per potervi formare una specie di domicilio.

Il Sig. Exchaquer, con cui parlato avea del mio progetto, mi assicurò che per la strada nuovamente scoperta conducente da Chamouni a Courmayeur passando pel Tacul avrei trovate delle situazioni quali io le bramava.

Affidatomi pertanto sulla sua asserzione, feci nella scorsa primavera i miei preparativi per tale spedizione, e ai primi di giugno andai con mio figlio a stabilirmi a Chomouni, aspettando il bel tempo per tosto approfittarne.

Portai con me due piccole tende di tela; ma bramava inoltre di avere colassù una specie di capanna formata di sassi. M’era d’uopo aver varj domicilj, o luoghi riparati, divisi l’un dall’altro, non solo per noi, e per le nostre guide, ma altresì perché il magnetometro, e la bussola di variazione, dovean esser fra se distanti per non influire sulle reciproche loro variazioni; mandai perciò a costruire anticipatamente la mentovata capanna.

Allorché questa fu terminata, e parve stabilito il bel tempo, partimmo da Chamouni. Il primo giorno, ai 2 di luglio, andammo a dormire sotto le nostre tende a Tacul; così appellasi un fondo coperto di erbetta sul margine di un piccol lago compreso fra l’estremità della ghiacciaja de’ boschi, ed il piede di una rupe detta Montagna del Tacul. All’indomani di là partimmo alle cinque e mezzo del mattino, e mezz’ora dopo il mezzo giorno giungemmo alla nostra capanna. A questo luogo fu dato il nome di Colle del Gigante, perché in effetto è posto all’ingresso del colle, da cui si discende a Courmayeur, e perché la montagna più rimarchevole che trovisi in que’ contorni dominante sul colle è il Gigante, alta e dirupata vetta, che ben distinguesi dalla sponda del nostro lago (di Ginevra). Il nome del Tacul, distante cinque o sei ore di cammino da queste rupi, non poteva in verun modo lor convenire.

Andando dal Tacul al Colle del Gigante non potemmo attraversare la ghiacciaja di Trelaporte, per cui passarono l’anno scorso quelli che ci precedettero; poiché le fenditure di tal ghiacciaja trovavansi aperte e senza neve, ond’erano affatto inaccessibili; e perciò fummo costretti di costeggiare le falde di un’altra vetta detta la Nera, presso a’ dirupamenti di neve estremamente ripidi, e vicini a profonde fenditure.

Le nostre guide ci assicuravano che tal passaggio è molto più periglioso di quello che avevamo tenuto l’anno scorso; ma io non fo gran caso delle loro asserzioni, sia perché il pericolo presente ci pare sempre maggiore di quello ch’è già passato, sia perché essi s’immaginano di adulare ai Viaggiatori, dicendo loro che son campati da un grave periglio. Vero è però, che il passaggio della Nera è pericoloso, e che siccome alla notte avea gelato, sarebbe stato impossibile l’attraversar quelle nevi sode e pendenti, se nel giorno precedente, quando la neve era ammollita pei raggi del sole, le persone del nostro seguito non fosser andate a segnarvi le orme, ove mettere con sicurezza il piede.


De Saussure durante la sua spedizione nelle Alpi

Fummo quindi esposti, come al Monte Bianco, al pericolo delle fenditure nascoste sotto sottili, e deboli strati di neve. Tali fenditure son men larghe e men frequenti verso la cima della montagna, e ci lusingavamo qui pure di uscirne felicemente, quando tutto ad un tratto sentimmo gridare: corde, corde. Chiedansi tai corde per cavar dal fondo della ghiacciaja il povero Alessio Balmat, uno di quei che portavano il nostro bagaglio, precedendoci di cento passi all’incirca, e che in un batter d’occhio era scomparso agli sguardi de’ suoi compagni ingojato da una larga fenditura profonda ben sessanta piedi [18 metri circa, N.d.R.], ma per sua ventura alla metà dell’altezza era stato sostenuto da una massa di neve ivi dianzi caduta. Precipitò egli su questa neve senza essersi fatto altro male, che qualche lieve scorticatura al volto. Il suo migliore amico P. G. Favret, si fe legare con delle corde, e mandar giù per fortemente legare l’amico: ciò fatto, l’un dopo l’altro si videro sortire dalla voragine. Alessio Balmat era bensì pallido alquanto, ma non mostrò verun turbamento, e riprendendo i nostri materazzi che formavano il suo carico, si rimise in cammino con un’inalterabile tranquillità.

Non fu già, come esser suole, un istante felice per noi l’arrivo al termine del nostro viaggio. M’avvidi tosto non senza dispiacere, confrontando la situazione della nostra capanna, colle altezze, ch’io ben conosceva altronde, che non eravamo alti mille ottocento tese, come ci avevan fatto sperare: trovai inoltre la nostra capanna troppo angusta, non avendo che sei piedi [1.8 metri, N.d.R.] in quadrato, e sì bassa che non vi poteamo star ritti in piedi; e le pietre, con cui era stata costruita, erano sì mal connesse, che eravi entrata la neve, e l’aveva empiuta per metà. La cresta degli scogli, su cui doveano spiegarsi le nostre tende, e alla cui estremità saliente stava la nostra capanna, era chiusa fra due ghiacciaje estremamente strette, ineguali, e d’ogni intorno circondate da balze di nevi e da rupi scoscese, che poteano chiamarsi precipizj. Per una abitazione di molti giorni questa situazione non offriva certamente una piacevole prospettiva, ma per un belvedere era veramente magnifica. Dalla parte dell’Italia avevamo un orizzonte immenso, formato da raddoppiate catene di monti coperti bensì in gran parte di nevi, ma vi si scoprivano frammezzo delle nere foreste, e alcune ridenti e ben coltivate valli. Dalla parte della Savoja il Monte Bianco, il Gigante, e le vette intermedie presentavano un maestoso quadro variato e interessante.
 

 

Fine prima parte

 
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