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LUCI D'ARTISTA A TORINO
Tratto dal libro di prossima pubblicazione: Maurizio Pallante, Un futuro senza luce?, Editori Riuniti, Roma, febbraio 2004 

19 DIC 2003 - Un percorso espositivo lungo venti chilometri, scandito da 545 mila lampadine (di cui non si precisa il voltaggio) accese dall’Azienda Energetica Metropolitana. Rischiareranno a giorno le notti invernali di Torino per tre mesi, dal 1° novembre al 31 gennaio. Tanto dura il Natale in questa città da sempre all’avanguardia dei cambiamenti. In questo laboratorio del futuro in cui si sta innovando anche il calendario. Le chiamano Luci d’artista e sono uno dei più colossali sprechi energetici che siano mai stati concepiti. Senza averne la minima consapevolezza. Dio acceca quelli che vuol perdere, scriveva il profeta Isaia. Gongola l’assessore alla cultura tra le tartine, scrive orgoglioso il giornale cittadino. Roma ci sta copiando. Ma noi siamo stati i primi. Uno a zero.

Da questa cascina sperduta tra i boschi e le colline del Monferrato, se guardi dalla parte di Torino, anche senza le luci d’artista tutte le notti si riverbera in cielo un lucore soffuso, sempre più chiaro man mano che sali verso i paesi più alti, dove la notte non è già più notte e le costellazioni fai fatica a distinguerle. A Torino organizzano convegni per denunciare l’inquinamento luminoso, col patrocinio di qualche assessorato, comunale, provinciale o regionale, che differenza fa? Senti, senti: Il cielo stellato è stato proclamato patrimonio dell’umanità. Organizzano convegni sulla Convenzione di Kyoto, col patrocinio di qualche assessorato, per denunciare con toni indignati l’amministrazione Bush (non gli americani che sono un grande popolo, solo chi inopinatamente li sta governando) perché ha deciso di non ratificare l’impegno di diminuire le emissioni di CO2 assunto dal suo predecessore. E poi cancellano il cielo dalla città, che per tre mesi non ne resti traccia, scaricando in atmosfera tonnellate e tonnellate di anidride carbonica in più di quella scaricata normalmente negli altri mesi dell’anno. Schizofrenia. Non in senso metaforico, ma etimologico.

«Perché, tu non scarichi la tua dose giornaliera di CO2 in atmosfera?», mi ha chiesto una voce stizzita. «Lo faccio. Purtroppo lo faccio, ma faccio anche attenzione a scaricarne il meno possibile. E mi propongo di diminuirla. Non di aumentarla. Allo stato attuale della tecnologia non posso farne a meno se non rinunciando ad alcuni servizi di cui non sono ancora pronto a privarmi: il frigorifero, la cucina a gas, l’impianto di riscaldamento. Ma la CO2 scaricata dalle luci d’artista a che serve?».

Mi risponde il giornale: «Le speranze di una città che promuove la sua immagine. Il business oltre il buio. Natale (con lieve anticipo...) con mezzo mondo che viene a Torino. Se non mezzo mondo almeno mezza Italia già basterebbe». Mi risponde l’assessore (troppo onore, non si disturbi): «Quando un’azienda è in crisi l’unica voce del bilancio su cui non taglia è l’immagine». E vai col Luna Park per attirare i turisti, perché i turisti spendono. Per i negozi sono clienti in più rispetto ai residenti. E si sa che chi spende fa girare l’economia. Non l’ha spiegato anche il governo nazionale di colore opposto al governo cittadino? Caro cosa hai fatto oggi? Hai lavato i calzini? No. Hai preparato la cena? No. Hai tolto la polvere? No. E allora cosa hai fatto? Ho comprato le mele. Oh, tesoro! Abbraccio. Stacco. Sintesi del dialogo platonico: Chi compra fa girare l’economia.

In sostanza le luci d’artista sono una grande insegna luminosa che invita a comprare, non un prodotto specifico come le insegne di un negozio, ma a comprare qualcosa. Non importa cosa. È una promozione dell’atto di comprare in quanto tale. Un segno emblematico del fatto che nelle società industriali avanzate non si produce più per consumare, ma si deve consumare per poter continuare a produrre. «Veramente ho tutto. Non mi manca nulla. Vorrei alzare gli occhi al cielo e guardare a lungo le stelle per rendermi conto se aveva ragione Kant quando diceva di vedere la presenza di Dio nel cielo stellato sopra di sé e nella legge morale dentro di sé. Forse per la proprietà transitiva potrei cominciare a osservare con più attenzione anche dentro me stesso e rivalutare i criteri morali, al posto di quelli economici, come guida delle mie scelte».

«Sei un asociale che non ha a cuore la sorte dei disoccupati e dei cassintegrati. Devi consumare di più perché si possa produrre». E per tenere vivo il bisogno di comprare, con l’occhio puntato sulle tredicesime come falchi, bisogna creare un’euforia drogata, sparare luci e rumori per attirare le persone, farle venire qui e non andare là perché spendano da noi. Soldi soldi soldi.

Ma il consumismo, non è il cancro che sta distruggendo il mondo? Che toglie a chi ha meno del necessario per dare cose inutili a chi ha già troppo? Sprecare energia per incentivare lo spreco delle risorse attraverso il consumismo ha qualche attinenza col fatto che un quinto dell’umanità ne artiglia i quattro quinti e quattro quinti devono accontentarsi di un quinto? Che fa credere a chi ha troppo che l’unico senso della vita è avere ancora di più? Che fa scatenare le guerre perché il livello di vita di chi ha troppo, e spreca gran parte di quello che ha, non può essere messo in discussione? Che accresce in continuazione i rifiuti? (tanto aumentiamo la percentuale della raccolta differenziata, il Po può stare tranquillo non lo riempiremo d’immondizia....). Che esaspera la concorrenza per abbassare i prezzi, e per conquistare quote di mercato espelle dal lavoro chi ha compiuto cinquant’anni? Non c’è nessuno che non ha nulla da dire? Il Sermig? Gli ambientalisti? (Ma se sono in giunta!). L’Arcivescovo? Niente, non se n’è accorto nessuno. Dio acceca quelli che vuol perdere. Tutti abbagliati dalle luci, come potrebbe accadere solo a quei due miliardi di esseri umani che non hanno l’elettricità. E che con i nostri sprechi non ce l’avranno mai, ammesso che averla sia indispensabile.

«Come al solito esageri, anche se in quello che dici c’è un fondo di verità». L’intellettuale di sinistra ha un tono conciliante. «Nella tua invettiva ignori completamente la valenza artistica di queste luci, che confermano la vocazione d’avanguardia di Torino dal dopoguerra a oggi. Non è un caso che questa iniziativa abbia il sostegno di tutti i musei e di tutte le gallerie d’arte contemporanea, di cui la città pullula». Confesso la mia ignoranza in materia. Ma appoggiare un’insegna luminosa che riproduce una fila di numeri sulla Mole Antonelliana, più che un’opera d’arte mi sembra un atto di prepotenza nei confronti di chi l’ha progettata. Sicuramente altera la sagoma che il suo volume ritaglia nello spazio. Sicuramente altera la sua connotazione temporale. E poi non è un’idea innovativa. È già vecchia di sei anni! Un monastero vero, dove ci si ritira per vivere lontano dal mondo, potrebbe essere immerso in un bagno di luce violacea da impianto di sterilizzazione? E che dire di luminarie che riproducono con la disposizione delle lampade elettriche la forma delle costellazioni che impediscono di vedere? Quando non ci si rende più conto dell’intrinseca assurdità di questo processo, vuol dire che non si è più capaci di vedere la bellezza e l’armonia dell’universo. Che si preferisce una povera imitazione, costosa e dannosa, alla straordinaria grandezza gratuita dell’originale. Quando si ha un bisogno così spasmodico di valorizzare il «nuovo», di sovrapporlo e imporlo all’esistente, vuol dire che l’esistente non piace. Che non si ritiene abbastanza bello e interessante per avere una sua attrattiva intrinseca. Le luci d’artista non sono una valorizzazione dell’immagine della città, ma l’inconscia manifestazione di un disprezzo nei suoi confronti.

Trent’anni fa Pier Paolo Pasolini in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera scrisse che la modernizzazione e il progresso avevano fatto sparire le lucciole. Si è pensato a lungo che la causa principale fosse da ricercare nei pesticidi usati in agricoltura. E sicuramente qualche attinenza c’era. Sulla prima pagina di Le Monde, il 31 ottobre di quest’anno, giorno precedente l’inaugurazione delle luci d’artista, è apparso, a firma di Benoît Hopquin, un articolo intitolato: Il duello delle lucciole e dei lampioni per conquistare la notte. Inizia così: «Le lucciole, i cui voli nuziali brillano nel cielo e nei ricordi d’infanzia, sono in via d’estinzione, decimate da concorrenti spietati: i lampioni. La moltiplicazione delle luci artificiali priva l’insetto del suo ambiente naturale: la notte. L’alone scuro arancione che ricopre oggi quasi tutta la Francia notturna eclissa la luminescenza del coleottero, perfino agli occhi della sua bella e gli impedisce di riprodursi».

Romanticherie? A volte il battito d’ali d’una farfalla in Australia, dopo qualche anno può scatenare un uragano in Arizona. Nella natura tutto si tiene. E una stella è incomparabilmente più bella di una lampada. La luminescenza di una lucciola incomparabilmente più bella di un faro. La sobrietà incomparabilmente più bella della volgarità dello scialo. Una più equa ripartizione delle risorse a livello mondiale incomparabilmente più bella di un feroce egoismo. L’equilibrio del clima incomparabilmente più bello dei repentini cambiamenti che stiamo vivendo. La sedimentazione storica di una città incomparabilmente più bella di una novità effimera che non la rispetta.



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