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DRAGARE I FIUMI NON SERVE A NULLA:
SFATIAMO UNA CREDENZA POPOLARE

26 maggio 2023
di Fabio Luino
Geomorfologo, Ricercatore Senior,
Consiglio Nazionale delle Ricerche - IRPI, Torino
 

A metà maggio 2023, in Emilia Romagna, abbiamo assistito all’ultimo evento alluvionale in ordine di tempo. Un evento molto dannoso che è seguito a quello del 2-3 maggio sempre nella stessa zona. Oltre ad ampie aree allagate, si è calcolato con ArcGis una superficie massima di 33.390 ettari, vi sono state migliaia di frane originatesi sulle colline appenniniche.

Circa 100 sono stati i Comuni colpiti: 43 dalle acque dei corsi d’acqua, 53 dalle frane in montagna e collina. Grandi cittadine sono state allagate: Faenza, Forlì, Lugo di Romagna e non solo. Nell’area intorno a Ravenna gli edifici interessati dall’alluvione sono stati più di 3 mila. Questi i numeri dell’alluvione in Emilia Romagna raccolti dal Rapid Mapping Team del Copernicus Emergency Management, il servizio europeo che si attiva in caso di disastri o emergenze.

Fig. 1 - Mappa satellitare delle zone allagate in Romagna il 18 (azzurro)
e il 20 maggio 2023 (rosso). Crediti: European Union,
Copernicus Emergency Management Service data.


Nei giorni successivi, come nel post-alluvione dell’ottobre 2020 in Piemonte e in quelle precedenti, spunta la polemica sui danni e sulla mancata prevenzione. Molti puntano il dito sui corsi d’acqua non puliti, o meglio non ripuliti da “tutto”.

Solo l'asportazione degli alberi
d'alto fusto dagli alvei ha senso

Mettiamo subito in chiaro che l’unica pulizia sensata è quella della vegetazione d’alto fusto, vale a dire quegli alberi che se estirpati dalla forza della corrente potrebbero ostacolare il libero deflusso delle acque, magari incastrandosi sotto le arcate di un ponte, così come il legname abbandonato negli alvei o accatastato contro i ponti da piene precedenti.

Fig. 2 - Baveno (VB). Fotografia di qualche anno fa dell’alveo del
T. Selvaspessa, poche centinaia di metri a monte dello sbocco nel Lago Maggiore. Il corso d'acqua si origina sulle pendici orientali del
M. Mottarone, area notoriamente molto piovosa. Ciò nonostante, nell'attraversamento dell'abitato l'alveo appariva completamente invaso da vegetazione arbustiva e arborea, anche di grandi dimensioni: inutile sottolineare il grosso rischio che ne sarebbe potuto derivare in caso di precipitazione breve ed intensa, come quella registrata nel luglio 1996,
che provocò l'allagamento del vicino campeggio.
 

Si potrebbe anche rimuovere un grosso masso posizionato a monte di un ponte perché ridurrebbe la sezione di deflusso. Tutto qui.
Per il resto, vale a dire vegetazione ripariale (arbusti e alberelli sulle sponde), ciottoli, ghiaie e sabbia sul fondo del corso d’acqua... lasciamoli dove sono.

L’onorevole Salvini, a seguito della tempesta Vaia nel 2018, affermò che vi erano stati “troppi anni di incuria e malinteso ambientalismo da salotto che non ti hanno fatto toccare l'albero nell'alveo: poi ecco che l'alberello ti presenta il conto” (Ansa.it, 4 novembre 2018).
A lui seguì il Governatore del Piemonte Cirio che pubblicamente disse che
“si doveva fare come facevano una volta i nostri nonni contadini che non avevano lauree in ingegneria o geologia e dragavano i fiumi: queste cose allora non accadevano per due giorni di pioggia” (Alba, Sala conferenze di Palazzo Mostre e Congressi, 2/11/2019).

Il 5 ottobre 2020, 2 giorni dopo l’alluvione che colpì Limone Piemonte, l’allora Vice-Premier Salvini rincarò la dose affermando che allo scopo di evitare le solite inondazioni, una soluzione potrebbe essere quella di “dragare i corsi d’acqua, vale a dire abbassare il fondo dell’alveo”, asportando un certo spessore di sedimenti fluviali.

Tutti parlano a sproposito perché non conoscono la geomorfologia fluviale: sono convinti che “dragare” possa far aumentare la sezione di deflusso del corso d’acqua e migliorare l’efficienza idraulica, non sapendo che dopo qualche mese o anno il corso d’acqua ricolmerebbe il materiale asportato con un deposito fresco preso in carico più a monte. Quindi, lavoro totalmente inutile.

Insomma, i politici nel dopo-alluvione sovente cavalcano una credenza popolare, che piace all’elettorato, alimentata ad hoc proprio dai cavatori, dalle aziende produttrici di materiale per l’edilizia, dalla Coldiretti, secondo la quale le esondazioni siano favorite dal fatto che nell’alveo dei corsi d’acqua vi sia troppo materiale lapideo: sabbia, ghiaia, ciottoli che formano un “materasso” alluvionale che diminuisce lo spazio per fare defluire le acque. Appare quanto meno curioso come durante la pandemia i politici rimanessero in silenzio e cedessero la parola a virologi ed immunologi, mentre nel dopo-alluvione sparino affermazioni senza alcuna competenza specifica… un po’ come fa sempre il tifoso per la Nazionale di calcio.

Per questo motivo è necessario fare un po’ di chiarezza sulle piene dei corsi d’acqua, sugli effetti dell’estrazione dei sedimenti e su possibili modalità gestionali sostenibili. 

Fig. 3 - Garessio (CN). Tratto del Tanaro a monte del ponte di Via Garibaldi (vista verso monte) come appariva nel luglio 2021: l'alveo è stato totalmente ripulito dall'azione delle ruspe che hanno asportato la vegetazione (di ogni tipo) e gran parte del materasso alluvionale rendendolo più simile a una autostrada che al letto di un fiume.
 

Gestire i fiumi: un lavoro complesso,
soprattutto dove le attività umane hanno già fatto danni

Partiamo dall’officiosità idraulica dei corsi d’acqua. Nell’ambito delle disposizioni che regolamentano la manutenzione dei corsi d’acqua, lo scopo principale è il mantenimento di buone condizioni di “officiosità idraulica”. Esse, fino a non molto tempo fa, erano esclusivamente associate ad un’ideale sezione trasversale regolare, a forma trapezoidale, in grado di trasportare a valle le portate di piena con tiranti possibilmente più bassi tali da limitare l’invasione della pianura alluvionale in termini di aree inondabili.
Un modello di corso d’acqua così definito non può tener conto delle caratteristiche geomorfologiche e dei fenomeni di dinamica fluviale propri dei corsi d’acqua naturali (formazione di isolotti, sviluppo di alvei pluricursali, cioè a dire a più canali di deflusso, ecc.) e pertanto essere oggetto di continui e costosi interventi di mantenimento di un modello concettuale artificiale forzatamente applicato alla realtà.

Secondo i più recenti criteri di idromorfologia (Manuale IDRAIM, 2016, scaricabile in rete), il concetto di buona officiosità, o meglio “funzionamento”, dei corsi d’acqua deve sottintendere valutazioni multidisciplinari che valutino la singola sezione o il singolo tratto di un corso d’acqua facente parte dell’intera asta fluviale: un sistema complesso in cui interagiscono in modo non lineare le diverse componenti naturali e i condizionamenti antropici imposti nel tempo dall’uomo in termini di opere e di occupazione di aree di pertinenza fluviale. L’approccio oggi giorno ritenuto corretto consiste, pertanto, nell’individuazione a livello di intera asta fluviale di un assetto di riferimento o di progetto rispettoso delle caratteristiche naturali del corso d’acqua e compatibile con l’uso del suolo in atto all’interno della regione fluviale, prevedendo anche la possibilità di rilocalizzare strutture antropiche.

Tale assetto di riferimento deve essere esplicitato per singoli segmenti fluviali, mediante la definizione degli obiettivi da conseguire per il raggiungimento delle finalità generali di miglioramento delle condizioni di sicurezza (mitigazione del rischio), della qualità ambientale e paesaggistica sia a livello locale, sia a livello di intera asta fluviale.

Il successivo confronto tra assetto attuale e di progetto consente la valutazione delle attuali condizioni di funzionalità dell’asta fluviale e l’individuazione delle azioni da intraprendere che possono consistere in una prima fase di raggiungimento delle condizioni di progetto ed in una fase successiva di mantenimento di tale configurazione.

Chiaro che l’assetto di progetto si debba strettamente rapportare con l’attuale sviluppo antropico ed infrastrutturale presente e consolidato anche in molte aree di pertinenza fluviale e come l’obiettivo prioritario sia quello di garantire adeguate condizioni di sicurezza per i centri abitati e le infrastrutture principali. Questo non implica obbligatoriamente la conferma dell’attuale assetto territoriale: si tratta quindi di analizzare gli attuali usi e programmare i possibili interventi utili per dar maggior spazio ai fiumi, anche attraverso la realizzazione di "casse di espansione" (o vasche di laminazione), vale a dire aree dedicate appositamente alle acque del fiume in piena. Sono enormi vasche realizzate non lontane dall'alveo, a monte dei centri abitati, proprio per evitare che le acque possano creare danni nelle zone antropizzate. Per esempio, Roma è protetta da un grande bacino di laminazione a Magliano Sabina per limitare le esondazioni del Tevere.


Nei decenni passati si è già cavato intensamente materiale dagli alvei, con danni enormi per l'innesco di erosioni

A questo punto chiediamoci quali siano state le conseguenze determinate dall’estrazione dei sedimenti dagli alvei dei corsi d’acqua.
La naturale mobilità dei fiumi, in particolare nelle aree non confinate dai versanti, e l’alternanza delle portate tra la fase di piena e quella di magra hanno indotto molti a considerarli spesso come elementi territoriali scomodi, in conflitto con le esigenze di uso del suolo, particolarmente nelle aree pianeggianti e soprattutto nell’attraversamento delle aree urbanizzate. 

Molti sanno che in Italia la pratica dell’estrazione di inerti dai corsi d’acqua è già stata ampiamente utilizzata dal dopo guerra agli anni ’80 del secolo scorso. Basti pensare che nell’alveo del Po e dei suoi affluenti, sono stati estratti circa 12 milioni di m3/anno (dati relativi ai volumi concessi, che ahimè sono sempre inferiori ai volumi reali estratti dagli alvei). Nonostante in Italia l’estrazione di inerti in alveo sia formalmente vietata dagli anni ’80, per le palesi nefaste conseguenze che descriverò di seguito... la richiesta è ancora molto pressante e vengono ancora rilasciate concessioni, generalmente mascherate da motivazioni di tipo idraulico.

D’altronde asportare il sedimento dai corsi d’acqua ha diversi vantaggi (per chi lo fa):
1) è di facile estrazione;
2) il materiale è di qualità pregevole, poiché risulta già pulito (cioè privo di sedimenti fini), disomogeneo e ben arrotondato;
3) le zone di estrazione sono solitamente vicine ai punti di stoccaggio e di vendita (quindi con costi di trasporto minimi).

I costi ambientali? Beh, non sono quasi mai presi in considerazione nelle valutazioni di progetti estrattivi e di conseguenza la “risorsa corso d’acqua” appare molto più conveniente rispetto ad altre fonti (cave).

Ma asportare i sedimenti, purtroppo, è stato ampiamente dimostrato come alteri l'equilibrio del corso d'acqua, che nel giro di qualche anno tenderà a definire un nuovo profilo di equilibrio aumentando la propria azione erosiva sulle sponde e se queste sono protette asportando materiale dal fondo, determinando la scomparsa del materasso alluvionale presente e il conseguente restringimento dell’alveo stesso (Figura 4). Insomma più si scava e più il corso d’acqua si auto-approfondisce.
 

Fig. 4 – Effetti di decenni di escavazioni fluviali nel Fiume Secchia (Modena): completa scomparsa del materasso alluvionale e riesumazione del basamento roccioso (foto Turconi).
 

Certamente questa pratica aumenta il rischio a valle perché accelera e concentra i deflussi (che non sono mai solamente liquidi), accentua di conseguenza il picco di piena e la sua velocità di trasferimento verso valle. Inoltre, in generale rende instabile l’equilibrio geomorfologico, generando un effetto domino: le costose opere di contenimento e di mitigazione dell’erosione realizzate lungo le sponde (scogliere, gabbionate, argini etc.) in molti punti risultano avere perso la propria funzionalità, essendo ormai sospese rispetto alle dinamiche fluviali (Figura 5).

E a monte? Oltre all’abbassamento diretto del livello del fondo nella zona di estrazione, l’escavazione modifica il profilo longitudinale, provocando un aumento locale di pendenza che tende a migrare verso monte, creando una erosione regressiva.
 

Fig. 5 – Fiume Tanaro presso Farigliano (CN), pochi giorni dopo l’alluvione del novembre 1994. Una gabbionata (delimitata dalla linea bianca), costituita di reti metalliche riempite di ciottoli aventi la finalità di proteggere le sponde dall’erosione delle acque, appariva ormai inservibile, ben elevata sulla sponda sinistra del fiume (foto Luino).
 

Asportare sedimenti dai corsi d’acqua compromette quindi inevitabilmente la stabilità delle opere longitudinali sulle sponde e anche quelle di attraversamento. Spesso, in passato, lungo alvei pesantemente utilizzati per l’estrazione di inerti, abbiamo visto crollare ponti per sottoescavazione delle pile: nel 1966 (dopo pochi anni di estrazione) crollò il ponte di Romito sul Fiume Magra, nel 1993 il ponte della tangenziale di Biella sul T. Cervo, fenomeno avvenuto proprio a causa di anomali approfondimenti del fondo alveo (in Cervo sino a 6 metri) dovuti all’asportazione per decenni di grandi quantitativi di materiale ghiaioso/ciottoloso da parte dei cavatori (Figura 6).

Fig. 6 – Torrente Cervo. Crollo del viadotto di Biella durante l'alluvione del 24 settembre 1993 (foto Luino).
 

Ancora oggi lungo tanti corsi d’acqua italiani si possono osservare ponti con strutture fatiscenti e pile che sembrano grissini piantati su un fondo instabile (Figura 7). Sono tutti corsi d’acqua che in passato sono stati sede di asportazione di molto materiale lapideo, vuoi per costruire strade, vuoi per realizzare gabbionate.

Correre ai ripari adesso è molto dispendioso
. Sul Fiume Tanaro qualche anno fa è stato condotto un intervento a salvaguardia di un’opera di attraversamento e non l’hanno certamente pagato i cavatori che si erano arricchiti, ma la Regione Piemonte (Figura 8).
 

Fig. 7 – In alto, Fiume Adda, ponte fra Traona e Cosio (Sondrio). Evidentissimo è l’approfondimento del fondo alveo (che mina la stabilità del ponte) dovuto all’intensa attività estrattiva a valle del manufatto. L’originario livello del fondo alveo è evidenziato dalla linea rossa. Qui sopra, Fiume Po a Guastalla (RE), altro grave esempio di scalzamento dovuto all’estrazione intensiva nell’alveo (foto Bellardone).
 

Fig. 8 – Fiume Tanaro. Le pile di questo ponte nel Comune di Govone (CN), necessitavano di urgente manutenzione: qualche anno fa la Regione Piemonte commissionò un lavoro di consolidamento che costò oltre 1.600.000 euro (foto Silvestro).
 

Tra i manufatti da annoverare che subiscono gli effetti dei processi erosivi ci sono anche le traverse ad uso irriguo (Figura 9), le opere di captazione delle acque per i consorzi irrigui (che si trovano pensili sul fondo alveo anche di 1-2 metri) ed infine le opere per la navigazione fluviale.
 

Tra i danni dell'escavazione, anche l'abbassamento delle falde freatiche, la scomparsa di zone umide
e l'arretramento delle spiagge

Ci sarebbe anche un altro aspetto negativo che colpisce soprattutto gli agricoltori. L'abbassamento dell'alveo condiziona anche l'equilibrio tra acque superficiali ed acque sotterranee per la continuità esistente attraverso gli interstizi dei sedimenti: ciò ha come prima conseguenza l’abbassamento della falda freatica. L’incisione dell’alveo è accompagnata da una diminuzione del pelo libero dell’acqua fluviale e delle falde ad essa idrogeologicamente connesse: ed ecco che gli agricoltori si troverebbero in difficoltà nella captazione delle acque nei pozzi.

Dal punto vista ambientale gli effetti in alcuni contesti possono essere irrecuperabili, come ad esempio per le aree umide presenti lungo le aree perifluviali. Infatti, gli intensi processi erosivi “sconnettono” completamente le aree umide dalle dinamiche fluviali determinando progressivamente la loro scomparsa.

Altro effetto altrettanto importante sono gli impatti determinati dal punto di vista economico e ambientale lungo le aree costiere marine. Come noto il ciclo della filiera dei sedimenti ha come recettore finale gli arenili delle aree costiere, interrompendo seppur non completamente questa filiere si causa un deficit di trasporto solido che sbilancia il delicato equilibrio tra ingressione marina e ripascimento naturale delle spiagge che determina i dati ormai tristemente noti che vedono le nostre aree costiere marine per lo più soggette ad erosione e arretramento (MATTM, marzo 2017 - Direzione generale per la salvaguardia del territorio e delle acque “L’erosione costiera in Italia: le variazioni della linea di costa dal 1960 al 2012”). Quindi l’estrazione d’inerti innesca e accentua alla lunga l’arretramento delle spiagge. Ebbene sì, sono coinvolte anche le coste! E per un Paese come il nostro che vive di turismo è sicuramente un problema di grande importanza.

Fig. 9 – Crollo della traversa di San Michele dei Mucchietti
sul Fiume Secchia (foto AdB Po).
 

Concludendo, sarebbe utile non parlare proprio più di asportazione di materiale lapideo dagli alvei dei fiumi: bisognerebbe che lo capissero in primis i politici, gli amministratori e anche la gente comune, tanto legata alle tradizioni popolari. Gli studi che geomorfologi ed ingegneri da decenni conducono sui corsi d’acqua e che sono costati tanti sforzi... saranno serviti ben a qualche cosa?

Abbiamo visto che vi sono stati molti danni in tutti i corsi d’acqua ove le ruspe hanno depauperato il letto dei fiumi da milioni di metri cubi di pietrisco: sottraendo materiale si favorisce un’ulteriore incisione e si accresce il pericolo idraulico. Il problema della gestione degli eventi alluvionali non si risolve facendo scorrere più velocemente l’acqua, ma dissipandone l’energia.

La gestione dei fiumi, ahinoi, viene sempre più spesso affrontata nel post-alluvione, in tempi brevi senza alcun studio di geomorfologia fluviale. Purtroppo in diversi campi, ma soprattutto in quello del dissesto geo-idrologico, assistiamo sconsolatamente al dilagare di una “mentalità web-scientifica” e al proliferare di teorie basate sul sentito dire che rifiutano o comunque non hanno alcuna corrispondenza con il metodo sperimentale: il grande giornalista sportivo Gianni Brera li definirebbe “discorsi da bar”.

 

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