DOVE MI TROVO:  Nimbus Web » Attualità » Cop-21: dal diritto le "armi" per il clima


 
COP-21: CHIAMATA ALLE "ARMI"
(DEL DIRITTO) PER SALVARE IL CLIMA

12.01.2016
di Roberto Louvin

Professore associato di Diritto pubblico comparato
Presidente dell’International University College di Torino



1. La Cop-21 e l’Accordo di Parigi

La Cop-21 di Parigi sui cambiamenti climatici del dicembre 2015 è stato un evento di portata planetaria, inserito in un lungo percorso di coinvolgimento internazionale sui temi del clima. Il nome Cop-21 ci ricorda infatti che si è trattato della ventunesima sessione annuale della Conferenza delle parti prevista dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), prodotta e sottoscritta nel 1992 nel corso del Summit della Terra di Rio de Janeiro del 1992. Il documento finale elaborato nella capitale francese si innesta quindi sul tronco di questa Convenzione, prendendo le mosse dalla constatazione dell’aggravamento del riscaldamento globale per effetto delle emissioni dei gas serra e dalla conseguente necessità di ridurre urgentemente tali emissioni.





Durante la Cop-21 di Parigi, parallelamente ai negoziati ufficiali, appositi spazi sono stati istituiti per coinvolgere nel dibattito un più vasto pubblico di osservatori e organizzazioni non governative. Qui sopra, attivisti di ONG di fronte alle sale delle riunioni plenarie, e François Hollande incontra i giovani agli "Espaces Générations Climat". Fonte: Cop-21 Flickr Albums.



L'ambizione della Conferenza sarebbe stata di concludere, vent’anni dopo l’inizio del negoziato avviato dalle Nazioni Unite, un accordo di carattere universale sul clima con carattere vincolante per tutte le nazioni. Il testo finale di questo accordo, approvato per consenso dai rappresentanti dei 196 paesi partecipanti, diventerà giuridicamente vincolante dopo la firma dell’accordo che avrà luogo a New York tra l’aprile del 2016 e l’aprile del 2017, a condizione che sia ratificato da almeno 55 paesi che rappresentino insieme oltre il 55 per cento delle emissioni globali di gas serra. Naturalmente, sarà anche necessario che ciascun paese dia attuazione all’Accordo per mezzo dei necessari atti di ratifica e di adesione.

L’attenzione dell’opinione pubblica internazionale e degli esperti si è concentrata, durante la Conferenza, sulla definizione quantitativa dell’obiettivo di limitazione del riscaldamento globale, con l’impegno esplicito (art. 2, c. 1 dell’Accordo) a rafforzare la risposta mondiale alla minaccia di cambiamenti climatici, nel contesto dello sviluppo sostenibile e della lotta contro la povertà, in particolare “limitando l’aumento della temperatura media del pianeta nettamente al di sotto di 2 °C rispetto ai livelli preindustriali e di proseguire l’azione condotta per limitare l’aumento delle temperature a 1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali”.

L’Accordo di Parigi è stato definito "ambizioso ed equilibrato" e potrebbe effettivamente costituire una svolta epocale; è però necessario che la mobilitazione intorno a questi obiettivi sia conseguente e che gli impegni si traducano in precetti effettivamente vincolanti. Per questo è necessario che, a sostegno dell’azione collettiva, il diritto faccia la sua parte nel trasformare un wishful thinking o un impegno morale in una vera e propria regola di condotta, assistita dalle necessarie garanzie di effettività.


2. Gli effetti sul piano normativo

Stando al testo dell’accordo, ogni paese che lo ratifica fisserà autonomamente un obiettivo di riduzione delle emissioni, secondo un quantitativo rimesso alla sua libera decisione da comunicare e attualizzare periodicamente, traducendolo quindi in misure attuative interne (art. 4, c. 2). La responsabilità degli Stati si limita, sostanzialmente, al dovere di rendere conto del loro contributo nazionale all’azione globale (art. 4, c. 13), nel quadro di una sorta di generale ‘contabilità’ delle emissioni e degli assorbimenti antropici relativi ai rispettivi contributi nazionali, per promuovere “l’integrità ambientale, la trasparenza, l’esattezza, l’esaustività, la comparabilità e la coerenza” di tale contabilità. Nessuna conseguenza diretta è peraltro prevista per la violazione degli obblighi di comunicazione, malgrado ciascuna delle parti risulti essere ufficialmente “responsabile del livello di emissioni indicato dell’accordo”.

Malgrado l’enfasi con cui è stato presentato, l’accordo non sembra quindi avere carattere realmente e direttamente cogente nei confronti delle parti, non essendo accompagnato da meccanismi autenticamente sanzionatori e coercitivi nei confronti dei soggetti inadempienti. È stato evidente, in questo, l’intento strategico di non castigare, né economicamente né in altro modo, gli Stati inadempienti, ma di fare piuttosto leva sul loro senso di responsabilità. Sotto questo aspetto, l’Accordo appare addirittura più debole del protocollo di Kyoto che prevedeva, a fronte della mancata riduzione delle emissioni, un aggravio degli obiettivi da raggiungere, la temporanea sospensione del diritto di prendere parte al cosiddetto emissions trading e l’avvio di una procedura di infrazione.
I negoziatori di Parigi hanno probabilmente voluto evitare di incorrere in procedure che in passato si sono rivelate sostanzialmente inefficaci, o comunque tali da provocare ostacoli alla ratifica dell’intesa raggiunta. Questo non implica però che il testo adottato non abbia di per sé un carattere giuridicamente vincolante. L’accordo di Parigi è infatti un protocollo addizionale ad una convenzione-quadro dell’ONU, e quindi di un vero e proprio trattato internazionale, e non una semplice ‘dichiarazione’ o ‘risoluzione’: non è puramente soft law e si fonda sulla Piattaforma di Durban per un’azione rinforzata dotata di effettiva forza giuridica. Solo per motivi puramente tattici è stato omesso l’uso del termine ‘trattato’, permettendo così ad alcuni Paesi, alle prese con evidenti difficoltà interne, di evitare le forche caudine della sottoposizione al voto dei propri organi parlamentari (come nel caso del Congresso degli Stati Uniti, che potrà essere bypassato, nei termini previsti dal diritto costituzionale statunitense, seguendo la procedura dell’executive agreement presidenziale) o della sottoposizione a consultazione popolare (prevista ad esempio in via eventuale in Svizzera). Come ogni trattato, l’Accordo deve essere eseguito e interpretato secondo il principio di buona fede su cui si regge il vincolo pattizio, in base agli artt. 26 e 31 della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati.

In un gioco semantico sottile che distingue “shall” da “should”, sono stati definiti obblighi di varia intensità: l’impegno concreto e quantificato di ridurre le emissioni non ha di per sé valore cogente, mentre ce l’ha l’obbligo generale di porre in essere una riduzione e di rivederne l’entità ogni cinque anni, in modo da elevarla progressivamente sotto la vigilanza di un comitato internazionale di esperti che svolge l’opera di monitoraggio, notifica e verifica (MRV) nei confronti di tutti i Paesi.
La scommessa è dunque che la trasparenza, la fiducia reciproca e il dialogo consentano di arrivare là dove i meccanismi sanzionatori di Kyoto hanno dimostrato di non poter operare efficacemente: la regola implicita è, dunque, essenzialmente quella di “name and shame”, per cui il fatto che sia resa pubblica l’inadempienza e la conseguente perdita di buona reputazione sul piano internazionale operano come deterrenti nei confronti del Paese inadempiente. Punto cruciale dell’Accordo resta comunque l’effettività della sottoposizione di tutti i Paesi – e non solo di quelli più sviluppati, com’era previsto dal Protocollo di Kyoto – ad un regime di severo controllo e di piena trasparenza.


3. Un impegno per i giuristi: non solo commentare...

La lotta per evitare catastrofici cambiamenti climatici non coinvolge solo gli scienziati, la politica e il mondo dell’economia. Gli operatori del diritto hanno una loro funzione decisiva nel progettare metodi efficienti di regolazione delle condotte pubbliche e private che influiscano positivamente su questi processi.
Se in Italia la mobilitazione dei giuristi è ancora modesta, lo stesso non si può dire della Francia che ha ospitato la Cop-21 e dove si sono avviate iniziative significative. Anche senza esaminarle in estremo dettaglio, è utile darne conto in maniera sufficientemente estesa perché possono essere di grande utilità per una mobilitazione pubblica efficace a sostegno dell’azione dei governi. Si deve infatti tenere presente che la dinamica prodotta da eventi come quello di Parigi può prolungarsi allargandosi attraverso processi ulteriori e distinti, sia sul piano internazionale (tanto per mezzo di nuove iniziative pattizie sul piano ufficiale, quanto attraverso l’azione delle ONG) che nazionale (con preamboli o emendamenti costituzionali, mediante interventi di legge o come principio ispiratore di nuova dottrina o di nuova giurisprudenza). È inoltre probabile che un’influenza decisiva possa essere esercitata dalla mobilitazione dei soggetti locali o globali che si battono per la difesa dell’ambiente; anche all’interno di essi o in sintonia con il loro operato si può dispiegare con successo l’azione di giuristi impegnati come soggetti partecipi della costruzione di un sistema economico e relazionale più rispettoso del contesto ambientale.


4. La ‘Missione Lepage’

La prima iniziativa messa in campo dalla dottrina del diritto si è sviluppata nell’ambito della cosiddetta Missione Lepage ed è stata affidata dal Presidente Hollande nel giugno del 2015 a Corinne Lepage, ex Ministro dell’Ambiente, giurista e avvocato specializzato in diritto dell’ambiente, al fine di fare il punto sulle iniziative in corso a livello internazionale e predisporre una proposta di “dichiarazione dei diritti dell’Umanità” da proporre in occasione della Conferenza di Parigi (1).



25 settembre 2015: il team della giurista Corinne Lepage (al centro), ex Ministro dell'Ambiente francese (1995-1997) durante la presentazione all'Eliseo della proposta di dichiarazione dei diritti dell'umanità in relazione alle sfide ambientali.
Fonte: https://twitter.com/corinnelepage.
 

Benché non manchino patti significativi a livello internazionale in materia ambientale, come la Dichiarazione di Stoccolma del 1972, la Carta mondiale della Natura del 1982 e la Dichiarazione di Rio del 1992, la proposta di una Dichiarazione dei diritti dell’umanità relativa alla conservazione del pianeta contiene elementi di ulteriore novità e potrebbe diventare un pilastro decisivo della governance ambientale, ma solo a condizione che le venga attribuita una reale forza cogente. Si tratta, infatti, di superare la portata puramente politica, simbolica o retorica, per mettere decisamente l’accento sul versante della garanzia dei diritti e sulla valenza giuridica obbligatoria. Il Rapporto Lepage, redatto da un nutrito gruppo di giuristi e rappresentanti di ONG, contiene, intanto, numerose e interessanti proposte in questa direzione.

Il diritto all’informazione ambientale, in primo luogo, sembra dover essere spinto ben oltre i contenuti essenziali della Convenzione di Aarhus, prevedendo l’obbligo per tutte le autorità pubbliche di una piena informazione in materia ambientale e sanitaria e mettendo online gratuitamente tutte le informazioni disponibili. La creazione di un’autorità amministrativa indipendente (sul modello di una Haute autorité de l'expertise), con il compito di generale verifica dell’attendibilità degli allarmi ambientali e climatici ricevuti anche confidenzialmente e di controllo di affidabilità delle certificazioni rese dagli esperti (expertises), dovrebbe confortare l’attendibilità delle informazioni, che andrebbe supportata anche attraverso la pubblicazione dei verbali delle commissioni tecniche di settore e delle opinioni di minoranza espresse in quella sede. Il punto è delicato ed ha implicazioni rilevantissime.

Utilissimo e meno problematico appare a questo proposito l’invito a proteggere giuridicamente coloro che segnalano pubblicamente e responsabilmente un pericolo ambientale, vietando quindi nei loro confronti misure sanzionatorie dirette o indirette in tutte le situazioni in cui si opera in buona fede. In parallelo, si ritiene di dover estendere in termini generali la libertà di espressione in materia di tutela del sistema ecologico, formalizzando anche un vero e proprio ‘dovere’ di lanciare, in caso di probabile pericolo, l’allarme all’interno di imprese e di istituzioni pubbliche. Ci sono, in questo caso, forti analogie con le strategie che si stanno ormai diffondendo in molti Paesi occidentali nella lotta contro la corruzione, tutelando i cosiddetti whistleblowers (o gole profonde), ossia coloro che segnalano alle autorità fatti corruttivi, denunciando pubblicamente azioni illecite all’interno di enti pubblici o privati, e che rischiano per questo in mancanza di un’adeguata copertura normativa di subire pratiche di vessazione o emarginazione.

Il versante dell’informazione del cittadino-consumatore potrebbe essere rafforzato anche con misure di carattere penale, per contrastare informazioni incomplete o non veritiere, e con il rafforzamento dei meccanismi di garanzia della deontologia informativa degli operatori della comunicazione.
L’approfondimento delle conoscenze in materia di rischi ambientali deve potersi avvalere di strumenti collaborativi nuovi e rafforzati fra Università, ONG, enti pubblici e imprese, attraverso schemi innovativi di “programma di ricerca cooperativa” e con il riconoscimento, per i soggetti che agiscono a tutela di lavoratori, utenti o consumatori, del diritto di chiedere anche senza particolari costi, perizie ambientali da parte di esperti indipendenti o anche di poter avviare procedure di perizia pubblica, aperta e pluralista.

Sul fronte della responsabilità penale, il Rapporto Lepage sottolinea poi l’importanza di una corretta declinazione dei delitti specifici di danno ambientale, categoria che nell’ordinamento italiano è stata di recente oggetto di un ampio rimaneggiamento con la riforma dei reati ambientali disposta dalla l. n. 68 del 2015 e l’introduzione dei nuovi delitti di inquinamento ambientale (art. 452-bis c.p.), disastro ambientale (art. 452-quater c.p.), traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività (art. 452-sexies c.p.), impedimento del controllo (articolo 452-septies c.p.) e omessa bonifica, (art. 452-terdecies c.p.).

Accanto alle misure di carattere penale, risultano essenziali anche interventi aggiuntivi di rafforzamento dei principi di responsabilità civile per danno all’ambiente, in particolare precisando la responsabilità delle società madri per i fatti commessi dalle loro filiali, definendo meglio le condizioni di sussistenza della turbativa ambientale, fissando criteri oggettivi per la quantificazione dei danni e puntualizzando meglio la distinzione degli ambiti tra le situazioni in cui è sufficiente una copertura assicurativa e i casi in cui il principio di precauzione è invece chiamato ad operare in maniera più stringente imponendo la rinuncia a determinate attività.

Un ulteriore versante di intervento dovrebbe riguardare i criteri di accesso alla giustizia (ossia la titolarità di diritti di azione o di intervento in materia ambientale), i meccanismi di prova e la riparazione dei torti, per consentire una più agevole costituzione di parte civile da parte degli enti locali, il più agevole esercizio delle azioni collettive e l’introduzione di meccanismi innovativi di mediazione ambientale, ambito quest’ultimo ancora scarsamente esplorato e che dovrebbe consentire con modesto dispendio di tempo e di denaro di favorire le dispute sui temi ambientali per mezzo di un procedimento informale facilitato da esperti neutrali.

In materia giudiziale, si deve però ricordare che nella maggior parte degli Stati l’esistenza di un danno ambientale si configura solo in presenza di un danno concreto ed immediato alle persone, con la conseguenza che la tutela dell’ecosistema nel suo complesso risulta significativamente ristretta. A questo tema sono già particolarmente attenti alcuni Paesi latino-americani come la Bolivia e l’Ecuador, che negli ultimi anni hanno già dato concretezza sul piano costituzionale e legislativo a questo profilo, ricollegandosi alle loro tradizioni spirituali ancestrali e riconoscendo sul piano tecnico-giuridico l’autonomia dei diritti della natura e il dovere di preservare l’integrità della Madre Terra o Pachamama. Caso emblematico di questa tendenza è la Ley de Derechos de la Madre Tierra boliviana del 21 dicembre 2010 con cui sono stati riconosciuti all’ambiente e all’intero ecosistema - dichiarato sacro in quanto “sistema vivente dinamico” - diritti del tutto simili ai diritti degli umani. È il progresso di una concezione nuova del diritto, che fa emergere una soggettività giuridica autonoma dell’ambiente, come da anni suggerisce una parte molto sensibile della dottrina: valga per tutti, come antesignana di questo orientamento che farebbe sicuramente fare un passo avanti decisivo all’intera civiltà umana, l’appassionata difesa lanciata già nel 1973 da Christopher Stone nel suo celebre saggio Should Trees Have Standing? Toward Legal Rights for Natural Object.


5. Il club dei giuristi

La seconda iniziativa di grande pregio promossa in campo giuridico a sostegno della dinamica della Conferenza di Parigi ha avuto come protagonista, nel novembre del 2015, la Commissione Ambiente del Club des juristes coordinato dall’avvocato parigino Yann Aguila, che ha riunito universitari, avvocati e magistrati intorno alla comune aspirazione di pensare al futuro diritto dell’ambiente. In un rapporto pubblico dal titolo “Rafforzare l’efficacia del diritto dell’ambiente. Doveri degli Stati, diritti degli individui” sono condensate 21 proposte al servizio della giustizia ambientale nel ventunesimo secolo.
 



Per affrontare la lotta ai cambiamenti climatici servono nuovi e migliori strumenti giuridici internazionali, oltre a quelli tecnologici, culturali ed educativi: diverse proposte sono contenute nel rapporto “Rafforzare l’efficacia del diritto dell’ambiente. Doveri degli Stati, diritti degli individui”, redatto in vista della Cop-21 dalla Commissione Ambiente del "Club des juristes".

Partendo dalla considerazione della necessità, ma anche della scarsa efficacia, dell’attuale diritto internazionale all’ambiente, il rapporto del Club des juristes indica realisticamente nella società civile l’unico vero contrappeso rispetto all’apparente onnipotenza normativa statale nel contrasto agli squilibri climatici e punta quindi decisamente alla stesura di una Carta universale dell’ambiente collegata, per la sua attuazione, a uno strumento applicativo dotato di efficacia vincolante per i giudici tanto internazionali quanto nazionali. Un documento di questa natura è sicuramente opportuno e porterebbe al superamento, attraverso un’opera di sintesi, della dispersione che si registra oggi in materia di accordi su temi ecologici e che ha portato a sottoscrivere negli ultimi trent’anni circa cinquecento diversi trattati di carattere generale riguardanti, in maniera più o meno diretta, l’ambiente. È qui in gioco non solo l’accessibilità, ma la stessa efficacia delle norme ambientali internazionali: un’opera di censimento e di razionalizzazione delle fonti attuali è certamente indispensabile.

La consacrazione e l’amplificazione dell’influenza che può esercitare la società civile sull’agenda in materia di tutela dell’ecosistema passa, secondo questi giuristi, attraverso il riconoscimento di un diritto d’iniziativa civica nel quadro delle Nazioni Unite, forgiato sull’esempio del meccanismo di diritto d'iniziativa dei cittadini europei già operante nell’Unione europea (in base all’art. 11, par. 4 del Trattato sull’Unione europea) e che consente ad un milione di cittadini europei di partecipare all’elaborazione delle politiche dell'Unione, sollecitando la Commissione europea a presentare una proposta legislativa sul tema indicato. Si suggerisce, inoltre, di riconoscere i diritti di petizione universale e di partecipazione civica ai negoziati ambientali, fornendo tali iniziative di una concreta ed autonoma funzione progettuale e di proposta e rendendo trasparenti i criteri di accreditamento delle ONG. A queste ultime si propone di consacrare un’apposita convenzione-quadro per favorire il ruolo e rafforzarne l’autorevolezza nel contesto di questi meccanismi partecipativi. Da questo punto di vista, l’esperienza di Parigi nel 2015 è comunque stata assolutamente esemplare: sono, infatti, stati istituiti appositi spazi, accessibili ad un largo pubblico, per l’espressione dell’opinione degli organismi non governativi sullo sconvolgimento climatico, in parallelo con l’attività dei negoziatori e degli osservatori ufficiali.

Il Club des juristes insiste molto sulle garanzie giurisdizionali, invitando ad estendere le procedure di constatazione del non rispetto (non-compliance procedures), la pubblicazione, come meccanismo istituzionale regolare, di rapporti pubblici periodici sul seguito dell’Accordo e l’individuazione di dispositivi specifici di assistenza per fare fronte ai casi di inadempimento. Il coinvolgimento della società civile, oltre che all’adozione dell’Accordo, potrebbe così estendersi anche ai meccanismi di controllo, con specifici diritti di informazione e di sorveglianza anche nei confronti dei Comitati previsti dall’Accordo e purtroppo non ancora dotati di adeguati mezzi finanziari.

L’analisi contenuta nel documento mette anche l’accento sull’assenza di giurisdizioni internazionali specializzate nel campo dell’ambiente e sull’attuale scarsa incisività della stessa Corte internazionale di Giustizia dell’Aia, di cui alcuni Paesi, come gli Stati Uniti, la Cina e la stessa Francia, non accettano peraltro nemmeno la giurisdizione. È, comunque, in questa direzione, oltre che nel senso auspicabile di creare un apposito organo internazionale di giustizia ambientale, che guardano questi giuristi, chiedendo per il momento uno specifico diritto di azione e di intervento in giudizio in capo almeno ad alcuni soggetti non governativi e la predisposizione di appositi elenchi di esperti e di ONG indipendenti per svolgere funzioni consultive rispetto a queste giurisdizioni. Tutte queste proposte trovano conforto anche nell’iniziativa avviata con la Carta di Bruxelles per la creazione di una Corte Penale europea e internazionale per l’Ambiente e per la Salute, per fare riconoscere i disastri ecologici come crimini contro l’umanità (2).

Sul versante della giustizia interna, si sottolinea come i giudici nazionali esitino ancora, in mancanza di riferimenti testuali, a riconoscere come ricevibili le argomentazioni che si possono trarre dal diritto internazionale. La violazione degli impegni assunti da un determinato Paese in quella sede non sono ancora invocabili dalla società civile se lo Stato stesso non riconosce esplicitamente un ‘effetto diretto’ nei confronti dei propri cittadini alle convenzioni e ai trattati che sottoscrive. L’obiettivo sarebbe naturalmente centrato con estrema facilità se fossero apposte clausole espresse di effetto diretto da cui il giudice nazionale potrebbe trarre dal trattato sottoscritto ispirazione e argomentazioni fondanti. Osservano giustamente gli esperti di Parigi che, se fosse stata seguita una strategia come questa, l’accordo di Parigi avrebbe potuto diventare per la Dichiarazione di Rio uno strumento attuativo di eccezionale importanza, come lo sono stati per la Dichiarazione universale dei Diritti Umani, la Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali e il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966. Si sarebbe così formato un ‘trittico’ di straordinaria importanza per l’intera umanità.
Non bisogna però farsi illusioni e su questo punto occorre una strategia più complessa, visto che ovviamente ben pochi Stati sono disponibili a sottostare a giurisdizioni esterne che ne colpiscano eventuali inadempienze in tema di ambiente. Si deve perciò provare a fare leva sul fatto che una parte del diritto internazionale già offre un fondamento esplicito e invocabile a tutela dei diritti dell’uomo, per superare così la dicotomia esistente fra diritto nazionale ed internazionale e sostenere un’evoluzione in questo senso della giurisprudenza. La tutela riservata ai diritti umani può diventare quindi una sorta di passerella per collegare il diritto interno con quello internazionale.


6. Dodici proposte

Sotto il titolo Le dérèglement climatique: un défi pour l’humanité, un collettivo di giuristi capeggiato da Mireille Delmas-Marty e composto da Luca d’Ambrosio, Caroline Devaux e Kathia Martin-Chenut ha avanzato, nell’ottobre del 2015, alcune proposte per stimolare la riflessione dei soggetti impegnati e mobilitati in vista di Cop-21 (3).



Ulteriori proposte, riguardanti specialmente la responsabilità ambientale e i nessi
tra protezione dell'ambiente e diritti umani, sono contenute nel rapporto
"
Le dérèglement climatique: un défi pour l’humanité",
coordinato da Mireille Delmas-Marty
.
 

Le proposte avanzate riguardano molti aspetti finora scarsamente considerati e meritano di essere esaminate in maniera dettagliata, soprattutto perché aprono la mente a scenari di evidente interconnessione fra campi apparentemente distanti fra loro.

Si parte dalla necessità allargare gli obiettivi comuni dei Paesi convenuti in Francia per dibattere degli sconvolgimenti climatici, per includervi tutti gli aspetti che contribuiscono all’adattamento delle nostre società ai nuovi equilibri. Il collettivo propone, quindi, di definire una griglia comune per la definizione dei singoli contributi nazionali, perimetrando così in modo più omogeneo e secondo una metodologia condivisa i contributi nazionali per l’attenuazione degli effetti dei cambiamenti in atto e per l’adattamento al mutamento.

L’accettazione di una responsabilità equamente ripartita emerge testualmente dal testo finale dell’accordo, precisata attraverso l’indicazione secondo cui il “debito ecologico” ereditato dal passato deve essere ripartito in modo equo (secondo un principio di storicizzazione) e al tempo stesso oggettivamente accettabile (sulla base di un principio di contestualizzazione).
Quanto alle garanzie di applicazione e controllo delle iniziative di autoregolazione previste dall’Accordo, viene suggerita intelligentemente dal collettivo l’istituzione di “punti di contatto nazionali” per raccogliere le denunce della cittadinanza e dei soggetti organizzati. Per dare efficacia a questa strategia la via possibile è quella di estendere al campo ambientale le ‘Linee Guida destinate alle Imprese Multinazionali’ adottate dalla riunione ministeriale dell’OCSE del 25 maggio 2011.

Un vero e proprio mix di misure di incitamento e di dissuasione è poi indicato come opportuno, soprattutto per far assumere alle imprese una vera e propria ‘responsabilità climatica’. L’ottica degli autori delle 12 proposte punta infatti a collegare più strettamente la qualità dell’ambiente alla protezione dei diritti dell’uomo, attraverso la fissazione in capo agli gli attori economici di un preciso obbligo di evitare la causazione di impatti climatici in danno dei diritti tanto degli individui quanto dei popoli indigeni. Sostenendo l’utilità di adottare in questo senso uno specifico strumento giuridico, ci si richiama soprattutto all’orientamento già assunto dall’ONU con la propria Risoluzione del 25 giugno 2014 del Consiglio dei diritti dell’Uomo per cercare di inquadrare in maniera più incisiva l’attività delle imprese transnazionali nella cornice del diritto internazionale.

Riprendendo uno spunto già presente nel Rapporto Lepage, il collettivo evidenzia la necessità di rafforzare la responsabilità delle società madri come società capofila (indicate in francese con il termine suggestivo e calzante di donneuses d’ordre) di imprese transnazionali di dimensioni globali. È più che opportuno che siano rafforzati gli obblighi di vigilanza in capo a questi soggetti quanto mai ‘sfuggenti’ per metterli di fronte alle loro responsabilità: sul piano tecnico, lo strumento suggerito a questo scopo è il ricorso al criterio di ragionevole diligenza, o due diligence, da incorporare nel sistema di gestione dei rischi d’impresa in senso ampio. La tecnica per raggiungere l’obiettivo è resa esplicita dal punto 17 delle "Linee Guida destinate alle imprese multinazionali" emanate dall’OCSE nel 2011 e prevede l’estensione della responsabilità a tutta la catena decisionale dell’impresa transnazionale. All’approfondimento di questa tematica, particolarmente complessa, del collegamento tra i diritti fondamentali e l’azione dei soggetti economici internazionali contribuisce utilmente un recente pregevole studio della Scuola Superiore Sant’Anna dal titolo Imprese e diritti umani: il caso Italia. Analisi del quadro normativo e delle politiche di salvaguardia, condotto sotto la supervisione dell’internazionalista Andrea de Guttry.
 



Un punto fondamentale è la responsabilità delle imprese, alle quali si chiede di superare le logiche capitalistiche di mera attenzione ai profitti, includendo anche l'interesse sociale e ambientale nelle proprie attività. Argomenti trattati in
"
Imprese e diritti umani: il caso Italia. Analisi del quadro normativo e delle politiche di salvaguardia", curato dall'internazionalista Andrea de Guttry.
 

Il proposito di ‘curvare’ l’orientamento dei grandi attori economici globali in un senso maggiormente sociale, ripensando la missione e la nozione di impresa, è sicuramente fra gli intenti più ambiziosi suggeriti dal documento, perché punta a superare gli effetti perversi del turbocapitalismo finanziario e la sua logica esclusiva di massimizzazione dei profitti, integrando nei suoi scopi anche l’interesse sociale. Sotto questo profilo, il documento richiama alcune indicazioni altamente innovative che sono state raccolte dal Groupe de réflexion presieduto da Jacques Attali nel 2012 e sono contenute nel Rapporto Pour une économie positive.

Strettamente connessa con la logica dell’allargamento sociale degli scopi dei grandi players economici internazionali è l’ambiziosa prospettiva di integrare quest’obiettivo negli accordi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, come primo passo per l’integrazione delle problematiche ambientali nel quadro dell’intero diritto internazionale economico. La logica utilitaristica che ha ispirato finora questo ordine giuridico, a cui gli Stati hanno consentito di scaricare tutte le esternalità negative ambientali sulla società senza sufficienti contrappesi, deve essere riportata entro limiti ben più stretti, superando la perfetta autonomia finora concessa all’ordine economico mondiale del mercato. Secondo la teoria della giustizia distributiva prospettata da Michael Waltzer, il rafforzamento delle clausole sociali dell’OMC è dunque un primo passo necessario per riportare le logiche di profitto nell’ambito esclusivo della sfera economica, impedendo loro di invadere le altre sfere di valore, e in primis quelle della salute umana e dell’integrità dell’ecosistema.

Il secondo passo in questa stessa direzione è dato dal riposizionamento degli Stati al centro delle pratiche di arbitrato internazionale in materia di investimenti. Si deve considerare che i più massicci saccheggi ambientali, con conseguenze talvolta drammatiche per l’ambiente e la salute, sono oggi resi possibili e garantiti da regole internazionali di protezione degli investimenti stranieri che marginalizzano le problematiche socio-ambientali, per garantire una tutela pressoché esclusiva alla salvaguardia dei capitali investiti e alle prospettiva della loro remunerazione. Recenti vicende messicane (il caso Tecmed) e argentine (la vicenda Suez-Vivendi Universal) mettono in chiarissima luce questo deleterio fenomeno, che tende a privare gli Stati e le popolazioni di ogni possibile difesa giuridica. Lo scudo di queste clausole arbitrali non deve continuare a operare a senso unico a favore dei soggetti economicamente più forti, penalizzando lo stesso ruolo di garanzia degli Stati sovrani.

A chiusura del cerchio, il collettivo guidato da Mireille Delmas-Marty invita infine a concepire meccanismi nuovi di sorveglianza e controllo nel quadro degli accordi commerciali che possano coinvolgere direttamente la società civile, monitorando costantemente i loro effetti sulle popolazioni locali e su quelle variazioni climatiche da cui queste popolazioni sono investite in maniera spesso drammatica.

Alcuni piccoli passi avanti in questo senso sono stati fatti nell’ambito dell’accordo di libero scambio fra Canada, Messico e Stati Uniti (ALENA) e nell’accordo di libero scambio fra Unione Europea, Colombia e Perù, intese peraltro fortemente contestate, come noto, dal fronte altermondialista. È comunque soprattutto quest’ultimo documento che contiene alcuni spunti interessanti sul piano tecnico circa i possibili meccanismi di monitoraggio (art. 280), i punti di contatto o gruppi nazionali in rappresentanza delle organizzazioni locali (art. 281) e il dialogo almeno annuale con le organizzazioni della società civile e l’opinione pubblica (art. 282). Queste strategie hanno al momento un effetto molto limitato, essendo state poste in essere allo scopo essenzialmente preventivo (in order to carry out a dialogue on matters related to the implementation, come sottolinea l’accordo fra UE, Colombia e Perù) di attutire possibili effetti deflagranti di eventi come quelli che si verificarono a Cochabamba, con lo scoppio della cosiddetta ‘guerra dell’acqua’, in seguito alla privatizzazione del servizio idrico locale. Si tratta di un inizio, certamente, ma siamo ancora lontani dal poter provocare riflessi immediati e consistenti nel contenimento delle spinte estrattive dell’economia globalizzata.


7. Un cantiere aperto

Come si può vedere da questa ricostruzione sommaria delle principali proposte avanzate dal mondo del diritto francese in concomitanza con Cop-21, siamo appena ai primi vagiti di una colossale e necessaria opera di riscrittura dell’ordinamento giuridico globale. Abbiamo tentato di dare conto in maniera generale della portata del tema e di alcune possibili strategie, ma è evidente che molte delle implicazioni dell’Accordo di Parigi non hanno purtroppo nemmeno potuto essere menzionate in questo scritto, come ad esempio quella, pur di capitale importanza, della definizione giuridica del ‘rifugiato climatico’ in base al diritto internazionale.

Gli allarmi lanciati dai rapporti scientifici, le spinte volontaristiche, la mobilitazione popolare e gli appelli etici non bastano comunque più: occorre mettere mano alla ricomposizione di un ordine giuridico ed economico più sano, guidato razionalmente e non fatalmente rassegnato alla prevaricazione da parte degli interessi egoistici con evidenti rischi per la stessa sopravvivenza dello genere umano.

Il ruolo essenziale degli operatori del diritto in questa direzione costituisce però anche un’opportunità eccezionale per fare uscire le scienze giuridiche da un ruolo puramente ‘esecutivo’, dando prova invece di un’autentica creatività attraverso un contributo decisivo nella lotta per il mantenimento dell’equilibrio climatico e per una vera giustizia ambientale.

Con una modesta concessione alla retorica, giustificata dall’altezza della posta in gioco, possiamo parlare di una vera e propria chiamata anche dei giuristi alle armi – ovviamente solo del diritto - per la salvezza del clima sul nostro pianeta.
 

Note

1. Il testo in 16 articoli della Proposta è riprodotto dal sito www.droitshumanite.fr attraverso il quale lo si può anche sottoscrivere la dichiarazione stessa. Il documento non ha peraltro avuto, al momento, un particolare effetto.

2. I contenuti dell’iniziativa e i documenti relativi sono reperibili su
www.tribunal-nature.org.

3. Il documento, che riprende ampiamente il contenuto del quarto capitolo del volume curato da A. Supiot e M. Delmas-Marty, Prendre la responsabilité au sérieux, Parigi, Presses universitaires de France, 2015, è consultabile sul sito del Collège de France.

 

Torna indietro