«Back to the Land»: arte e ambiente in mostra a Verona
07.02.2017
Rimosse le
passerelle di vinile di Christo, si torna finalmente a fare arte
(davvero) ecologica: un'arte che ci fa pensare, sul serio, al
rapporto umanità-natura come rapporto creativo.
È questo il tema della
mostra «Back to the Land», curata da Andrea Lerda e ospitata a
Verona dalla Galleria Studio La Città, fino al 26 febbraio 2017.
Con opere popolate da blocchi di ghiaccio e specie in via d'estinzione,
navi tossiche e paesaggi, sette artisti italiani e internazionali ci
invitano a riflettere sull'arte come "cura", che sia insieme un farsi
carico della fragilità ambientale e un modo di pensare terapeutico
rispetto all'impatto che il nostro vivere quotidiano comporta.
Pubblichiamo di seguito uno scritto di Serenella Iovino
(Università di Torino, Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere e
Culture Moderne) tratto dal catalogo della mostra.

Back to the Land
Fondere insieme arte e natura per tornare alla terra. Più spesso, se ci
rifletti, è stato il contrario. Più spesso, è stata proprio l’arte il
veicolo per allontanarsi dalla terra. E’ stata il mezzo per sottrarre la
natura alla barbarie dell’incolto e addomesticarla, per renderla meno
severa, meno selvaggia. Pensa al giardino. Che sia all’italiana o
all’inglese, geometrico o spontaneo in apparenza, il giardino è
un’umanizzazione della natura: la sua bellezza emana da un ideale
estetico e morale che, per liberare l’umano dal caos, libera la natura
da se stessa. Il giardino è il sogno di rifare la natura con l’arte.
Ma sono proprio i giardini il problema? Non direi. Direi, piuttosto, che
nella smania di rifare la natura, molto più spesso la si è disfatta.
Nel tentativo di umanizzarla, si sono ignorate le derive di disumanità
di cui la nostra azione è spesso responsabile. E si è persa di vista la
bellezza. Sarà per questo che, se ci si guarda intorno, si vedono sempre
meno giardini e sempre più scenari di devastazione. E allora è proprio
da qui che ci tocca partire, per tornare alla terra.
Non è una questione facile, nell’età della crisi ecologica. Sfidati e
spesso rotti gli equilibri biologici e sociali, in quest’età vediamo
infatti la natura trasformarsi in un immenso cantiere di forme e
materiali, più simile a un grande esperimento chimico che non a
un’opera d’arte. Contaminata dalle sostanze tossiche e dagli “effetti
collaterali” dello sviluppo industriale e tecnologico, la vediamo
assumere le fattezze imprevedibili e dissonanti delle mutazioni
patologiche. La vediamo scomparire sotto i rifiuti, diventare
“invisibile” come le città immaginate da Italo Calvino. Una di queste,
Leonia, preda di una continua smania di rifare se stessa ogni giorno,
finisce sepolta dalla “crosta ininterrotta” dei propri rifiuti,
offrendoci una metafora oggi fin troppo facile per i nostri paesaggi
malati.
Tuttavia, è proprio di fronte a questi paesaggi disarmonici, a questa
latitanza della vita non patologica, che torniamo a chiederci come sia
pensabile la relazione tra arte e natura.

E’ ancora possibile creare opere che siano in dialogo con la vita del
pianeta? E come si può rappresentare questo dialogo, dando
all’intervento umano sulla natura una dimensione creativa e vitale, e
non solo strumentale—o peggio distruttiva? Che cosa deve fare l’arte di
fronte all’antropocene, l’epoca dell’umano come forza geologica? Come
risponde alle estinzioni dei paesaggi e delle forme di vita? Dev’essere
il sudario della natura o seguirla nella sua vitalità resiliente, nelle
sue forme ibride e contaminate, nelle sue creative neo-formazioni?
«Back to the Land» ci fa pensare a tutto questo, invitandoci proprio ad
abbracciare questa nuova “natura” dell’arte: una natura emergente ed
emergenziale, che allo stesso tempo dialoga con le criticità e ne fa
parte, perché sono proprio queste criticità la sua ragione d’essere. Con
linguaggi diversi e immaginari comunicanti, le artiste e gli artisti
di questa mostra riflettono sul ruolo dell’arte nell’età della crisi
ecologica.
E le loro risposte sono molteplici. Le possiamo trovare nei murales e
nelle installazioni di Andreco, blocchi di ghiaccio che si
sciolgono nel mare delle parti per milione di anidride carbonica o degli
altri elementi in cui galleggiano le nostre città. Le vediamo rivelate
in absentia nelle “sottrazioni” di Cristian Chironi, che
ritaglia dai libri di botanica e di scienze naturali quello che l’antropocene
ritaglia dal libro della natura. Le incontriamo, queste risposte, nella
vegetazione che Neha Choksi vede infiltrarsi tenace nell’asfalto
nelle strade di Mumbai, quasi una contaminazione a parti invertite. Ci
vengono incontro dai naufragi senza troppi spettatori (ma, in compenso,
con molti complici) delle navi dei veleni affondate nel Mediterraneo e
reinterpretate da Andrea Nacciarriti. Ancora, nell’appello
creativo di Giorgia Severi a non perdere il paesaggio, memoria
storica e biologica che ci lega alla terra. E per finire nel
landscape painting di Julius von Bismark, che trasforma
elementi del paesaggio in compagni di un momento estetico-ludico, a
rimarcare la complicità creativa tra l’umano e l’altro naturale.

In tutte queste diverse espressioni, l’arte ecologica è un’arte impura
che trasforma l’esperienza estetica in esperienza riflessiva e in
messaggio politico.
Oltre il paradigma autoreferenziale dell’“arte per l’arte”, di un’arte
cioè ferma in una teca di museo e impermeabile al mondo, l’arte
ecologica può proporsi infatti come “arte sociale” che cerca di
rimettere in discussione il rapporto creativo e conoscitivo dell’umano
con la natura, qualcosa che si può scrivere sui muri di un palazzo, o
lasciare alla fermata di un tram.
La questione principale non è soltanto la necessità di smitizzare la
fraintesa autonomia creativa dell’artista (che, come ognuno di noi,
dipende dal mondo in cui vive), ma anche quella di associare a queste
opere un contenuto educativo “pluridirezionale”; un messaggio che
vada, cioè, alla società nel suo complesso, non solo alle élites
culturali ma a ogni possibile fruitore. Ciò ci dice moltissimo sulle
potenzialità destabilizzanti di quest’arte, anche nei confronti del
mercato: come fa un gallerista a vendere un murale sulla parete di un
edificio o un blocco di rocce dipinte in loco? Per tacere del fatto che
anche il discorso della “riproducibilità tecnica” subisce qui un forte
contraccolpo: come riprodurre opere che dialogano direttamente con i
luoghi in cui si collocano e che dipendono dagli agenti atmosferici,
dalle caratteristiche geologiche, o dalla casuale generosità di un’onda
che restituisce proprio quel ciocco di legno?
Ciò però ci dice anche molto di una visione etica del rapporto
umanità-natura: in questo senso, etica ed estetica si toccano,
perché l’essere umano—artista e fruitore—gioca con l’ambiente, e così
facendo cerca di rivendicare una reciprocità tra la creatività artistica
e la funzionalità dell’ambiente stesso.
Sul finire degli anni ’60, i primi interpreti della land art,
movimento nato negli USA e poi diffusosi in Europa, ritenevano che
l’arte dovesse vivere anche e soprattutto fuori dalle istituzioni
canoniche. Era una polemica esplicita contro una visione elitistica e
mercificante dell’esperienza dell’arte come di quella della natura:
quella visione, cioè, che pretende di confinare tanto l’arte quanto la
natura in contesti artificiali, rendendole asettiche, astratte, e
difficilmente accessibili.
Smithson, Oppenheim, Heizer, Holt, De Maria si spingevano ancora oltre,
dimostrando che, contro ogni pretesa d’intrinseca eternità dell’opera
d’arte, la sua fruizione può essere estesa ai suoi cambiamenti nel tempo
e alla sua transitorietà, alla vita dei materiali che la costituiscono,
al luogo in cui si trova, al mondo in cui essa esiste. Perché l’arte
vive, e vive nel mondo—anzi, vive di mondo.
Ha scritto Tomaso Montanari: “Volete essere rivoluzionari?
Portate l’arte nelle periferie, portatela dove la vita quotidiana
declina verso il brutto e l’abbandono”.
Oggi che le
parti per milione di CO2 e le patologie dei nostri
paesaggi sono sopra ogni possibile livello di soglia, è la terra la
nostra vera periferia—una terra che per fortuna non tollera elitismi
e che purtroppo non gode di nessuna eternità. E allora, vogliamo essere
davvero rivoluzionari? Riportiamo l’arte alla terra. Let’s get
back to the land.
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