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ghiacciaio pr
É de baR (MONTE BIANCO):
intenso ritiro e PROFONDE TRASFORMAZIONI MORFOLOGICHE

Luca Mercalli, SMI - 10 settembre 2012
 

1897 (f. Druetti)

2005 (f. L. Mercalli)

2012 (f. L. Mercalli)


Fino a qualche decennio fa una depressione come “Christine”, che a inizio settembre si è formata sul Mediterraneo interrompendo la grande calura, ci avrebbe proiettati definitivamente nell’autunno. E invece, in linea con la tendenza alle estati sempre più lunghe e roventi, il caldo si è subito ripreso, e anche la sventagliata fresca attesa per metà settimana non segnerà ancora la fine dell’estate. A subire questa situazione nuova e anomala sono prima di tutto i ghiacciai alpini, che anche quest’anno hanno sofferto pesanti regressi.

All’inizio degli Anni Duemila come meta delle escursioni didattiche per gli studenti sceglievo il ghiacciaio di Pré de Bar, al fondo della Val Ferret, nel massiccio del Monte Bianco. In quaranta minuti di comoda passeggiata anche chi non aveva mai visto un ghiacciaio poteva stupirsi dinanzi a una gigantesca colata glaciale a forma di coda di castoro, che divallava dai 3820 metri del Mont Dolent e si allargava nell’ampia conca da dove nasce uno dei due rami della Dora Baltea. Anche se dai cordoni morenici ottocenteschi bisognava ancora camminare un chilometro e mezzo prima di toccare il ghiaccio a causa del ritiro intervenuto dopo la Piccola Età Glaciale, il supplemento di marcia era ampiamente ripagato da una spettacolare fronte di ghiaccio pulito e luccicante dentro il quale si aprivano grotte e crepacci dai riflessi azzurrini.

I ragazzi incuriositi accarezzavano il gigante gelato, ascoltavano le sorde note della deformazione del ghiaccio in lento movimento, respiravano la fresca brezza glaciale, assaggiavano cristalli di acqua solida vecchi forse di qualche secolo. Un manuale di glaciologia a cielo aperto. La lezione sul campo terminava sul magnifico terrazzo del Rifugio Elena, a 2060 metri, perfetta stazione fotografica per il confronto, anno dopo anno, tra la situazione passata e presente.

Pochi giorni fa sono tornato al Pré de Bar. Non credevo di assistere a una trasformazione morfologica e ambientale tanto rapida e vistosa. Nel giro di un quinquennio la gran coda di castoro, ampia, turgida e bombata è stata praticamente amputata dalla fusione. Ne resta un lembo divorato da caverne e crolli, ghiaccio scuro, come asfaltato, carico di sabbia e rocce, un residuo agonizzante in attesa di consumarsi sotto il sole. La gran seraccata che lo alimentava si è interrotta con l’emersione di un affioramento roccioso e dalla nuova fronte sospesa sgorga un impetuoso torrente di acque torbide e lattiginose. Il nero ghiaccio morto che ancora occupa il bacino morenico si consuma al tasso di 5-7 metri di spessore e 20-30 metri di lunghezza ogni anno, e nel giro di poche estati sarà sparito, lasciando spazio a una desolata pietraia. Il nuovo punto terminale del Pré de Bar è ora quattrocento metri più in alto, appeso a un ripido scivolo roccioso, e presto sparirà alla vista ritirandosi negli alti pianori sovrastanti.

Non porterò più i miei studenti tra queste cataste di massi, chi c’è stato ha avuto il privilegio di assistere a una trasformazione epocale del nostro paesaggio alpino, testimone diretto del riscaldamento globale. L’aumento di temperatura potrebbe, secondo le più recenti simulazioni come quella del glaciologo Matthias Huss dell’Università di Friburgo, spazzare via entro il 2100 oltre l’80 percento dell’odierna area glaciale delle Alpi. Agli studenti del ventunesimo secolo non mi resterà dunque che mostrare su computer il ghiaccio digitale del Pré de Bar.

Articolo apparso su La Stampa di lunedì 10 settembre 2012, pagina 18
 


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