Fino a qualche decennio fa una
depressione come “Christine”, che a inizio settembre si è formata sul
Mediterraneo interrompendo la grande calura, ci avrebbe proiettati
definitivamente nell’autunno. E invece, in linea con la tendenza alle
estati sempre più lunghe e roventi, il caldo si è subito ripreso, e
anche la sventagliata fresca attesa per metà settimana non segnerà
ancora la fine dell’estate. A subire questa situazione nuova e anomala
sono prima di tutto i ghiacciai alpini, che anche quest’anno hanno
sofferto pesanti regressi.
All’inizio degli Anni Duemila come meta delle escursioni didattiche
per gli studenti sceglievo il ghiacciaio di Pré de Bar, al fondo della
Val Ferret, nel massiccio del Monte Bianco. In quaranta minuti di
comoda passeggiata anche chi non aveva mai visto un ghiacciaio poteva
stupirsi dinanzi a una gigantesca colata glaciale a forma di coda di
castoro, che divallava dai 3820 metri del Mont Dolent e si allargava
nell’ampia conca da dove nasce uno dei due rami della Dora Baltea.
Anche se dai cordoni morenici ottocenteschi bisognava ancora camminare
un chilometro e mezzo prima di toccare il ghiaccio a causa del ritiro
intervenuto dopo la Piccola Età Glaciale, il supplemento di marcia era
ampiamente ripagato da una spettacolare fronte di ghiaccio pulito e
luccicante dentro il quale si aprivano grotte e crepacci dai riflessi
azzurrini.
I ragazzi incuriositi accarezzavano il gigante gelato, ascoltavano le
sorde note della deformazione del ghiaccio in lento movimento,
respiravano la fresca brezza glaciale, assaggiavano cristalli di acqua
solida vecchi forse di qualche secolo. Un manuale di glaciologia a
cielo aperto. La lezione sul campo terminava sul magnifico terrazzo
del Rifugio Elena, a 2060 metri, perfetta stazione fotografica per il
confronto, anno dopo anno, tra la situazione passata e presente.
Pochi giorni fa sono tornato al Pré de Bar. Non credevo di assistere a
una trasformazione morfologica e ambientale tanto rapida e vistosa.
Nel giro di un quinquennio la gran coda di castoro, ampia, turgida e
bombata è stata praticamente amputata dalla fusione. Ne resta un lembo
divorato da caverne e crolli, ghiaccio scuro, come asfaltato, carico
di sabbia e rocce, un residuo agonizzante in attesa di consumarsi
sotto il sole. La gran seraccata che lo alimentava si è interrotta con
l’emersione di un affioramento roccioso e dalla nuova fronte sospesa
sgorga un impetuoso torrente di acque torbide e lattiginose. Il nero
ghiaccio morto che ancora occupa il bacino morenico si consuma al
tasso di 5-7 metri di spessore e 20-30 metri di lunghezza ogni anno, e
nel giro di poche estati sarà sparito, lasciando spazio a una desolata
pietraia. Il nuovo punto terminale del Pré de Bar è ora quattrocento
metri più in alto, appeso a un ripido scivolo roccioso, e presto
sparirà alla vista ritirandosi negli alti pianori sovrastanti.
Non porterò più i miei studenti tra queste cataste di massi, chi c’è
stato ha avuto il privilegio di assistere a una trasformazione epocale
del nostro paesaggio alpino, testimone diretto del riscaldamento
globale. L’aumento di temperatura potrebbe, secondo le più recenti
simulazioni come quella del glaciologo Matthias Huss dell’Università
di Friburgo, spazzare via entro il 2100 oltre l’80 percento
dell’odierna area glaciale delle Alpi. Agli studenti del ventunesimo
secolo non mi resterà dunque che mostrare su computer il ghiaccio
digitale del Pré de Bar.
Articolo apparso su
La Stampa di lunedì 10 settembre 2012, pagina 18
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