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RIVISTA DI METEOROLOGIA, CLIMA E GHIACCIAI
  

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DELLE NUBI

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Corso multimediale di meteorologia
  

   
DOMANDE FREQUENTI SULL'ALLUVIONE DI FINE MILLENNIO IN ITALIA NORD-OVEST
RISPONDONO: Luca Mercalli - Presidente della Società Meteorologica Subalpina, Claudio Castellano, Daniele Cat Berro, Guido Ariotti Canepa, Mauro Palomba -  SMS-Redazione Nimbus
Prologo
Diamole un nome: JOSEFINE o IKE? 
Si poteva evitare questo disastro?
E’ vero che è stata colpa della fusione dei ghiacciai?
E’ vero che la piena è stata causata dall’apertura delle dighe?
La protezione civile ha funzionato?
Le previsioni erano corrette? Sono state diffuse opportunamente?
E’ vero che le precipitazioni hanno superato i 700 mm in 4 giorni?
Torna ad inizio pagina PROLOGO (Luca Mercalli)
Giovedì 23 settembre del 1993 ero in una bella sala di un albergo di Verbier, in Svizzera, al congresso della Società Elvetica di Scienze Naturali. Fuori una pioggia battente. Nel pomeriggio scesi a Martigny, a fotografare il Rodano in piena, lambiva i ponti. Venerdì 24 settembre, nel pomeriggio, giunge la notizia che la città di Briga è stata investita da una colata di fango e detriti spessa tre metri, ci sono vittime. Sabato 25, mattina, tento di guadagnare la strada verso il confine, tunnel del Gran San Bernardo, ma è chiusa; parte della galleria artificiale di accesso è stata sfondata da un torrente in piena, ma poi la sede stradale viene sgombrata. Piove a tratti. Fuori dal tunnel la Valle d’Aosta è in emergenza. La Dora Baltea in piena, la statale erosa a Bard, ma l’autostrada è ancora aperta. Da qui fino a Torino, in un panorama del quale mi restano nella mente soprattutto dei colori, il grigio livido del cielo, il marrone del fango e dei tronchi squarciati dalle acque e il verde della vegetazione lavata dalla pioggia. L’autostrada è deserta, sono ancora ignaro del disastro nelle valli alpine che intravedo tra brandelli di nebbie, le stesse colpite anche ora che scrivo.

Venerdì 4 novembre 1994, Alessandria. Sto svolgendo un sopralluogo a una stazione meteorologica, piove forte e in quel prato fangoso ci sono già ampie pozze. Al collega locale annuncio che le previsioni sono pessime, ancora forti piogge domani. 

Sabato 5 novembre 1994, Torino. Quando svuoto il pluviometro al mattino e vedo che continua a piovere, capisco che accadrà qualcosa di grave: oggi raggiungeremo a Torino i 160 mm d’acqua in 24 ore, un caso che qui capita cinque volte in un secolo, e non è un temporale estivo localizzato…
Inizio a peregrinare per i ponti di Torino con la macchina fotografica e la sera la televisione annuncia i primi guasti nel Cuneese. Domenica 6 novembre, il Tanaro irrompe ad Alba, Asti, Alessandria e le Langhe si spappolano in colate di fango. A Torino l’acqua uscirà solo alla Madonna del Pilone, sul Po, che si scatenerà più a Valle, san Mauro, Chivasso... I notiziari della sera conteranno 70 vittime.

Da allora le alluvioni hanno sempre fatto buona compagnia alla redazione di Nimbus: dopo le ore dell’emergenza la lunga opera di raccolta della documentazione, la verifica dei dati, la pubblicazione dei numeri speciali... e poi lo stillicidio delle alluvioni più localizzate ma non meno gravi, documentate dalle molte persone che ci seguono sul territorio: il 19 giugno 1996 in alta Versilia, 7-8 luglio 1996 ad Omegna, sul Lago d’Orta, 24 luglio 1996 in Valle d’Aosta e Alta Savoia, il 7-8 ottobre 1996 sul Cuneese, 4 maggio 1999 nel Pinerolese, 28-30 aprile 2000 nei bacini dell’alto, Pellice, Chisone e Sangone, 13 giugno 2000 Cuneese, Queyras, alta valle di Susa, 30 settembre 2000 Ivrea e Biellese. 

Torna ad inizio pagina DIAMOLE UN NOME: JOSEFINE O IKE?
Potrà sembrare una bizzarria dare un nome ad un ciclone (extratropicale) come si fa per gli uragani atlantici. Qualcuno la definirebbe un’americanata (io non sono d’accordo, ho vissuto e studiato negli USA quanto basta per apprezzare la serietà e l’efficienza di chi lavora nel settore delle scienze atmosferiche, tant’è che alla fine si copia sempre da loro...). Ma è una scelta logica e efficace. Con un nome si identifica univocamente un sistema meteorologico seguendolo nella sua evoluzione spazio-temporale senza confusioni e senza fumosi giri di parole. Se poi è causa di catastrofi e lo si studia per qualche anno, meglio un nome conciso che uno scomodo fardello lessicale tipo “la perturbazione afro-mediterranea dei giorni 13-17 ottobre 2000 sulle Alpi occidentali”.
E’ così che la scuola meteorologica tedesca ha adottato anche per la scena europea la tecnica del battesimo di depressioni e anticicloni, emulando l’abitudine introdotta da un operatore radio della marina americana durante l’ultima guerra mondiale. Fino al 1979, le tempeste tropicali erano solo femmine, poi anche in questo campo fu invocata la parità dei sessi, con nomi alterni. Per gli uragani atlantici vi sono 6 liste annuali che si ripetono, ma se l’evento è particolarmente intenso, il suo nome viene ritirato e passa alla storia come hanno fatto Camille, Andrew, Georges, Mitch, Floyd...

Dunque è il Servizio Meteorologico tedesco (Deutscher Wetterdienst, Offenbach/am/Mein) che ogni giorno battezza le basse pressioni d’Europa. L’ha fatto anche alle ore 00 UTC di venerdì 13 ottobre con “JOSEFINE” , 1005 hPa centrati sulla Sardegna, figlia della depressione "IMKE" di 1000 hPa centrata sul mare del Nord. Da quel momento, Josefine (che, essendo il lingua germanica, si pronuncia “iosefìne”, o se preferite la traduzione, “Giuseppina”) ci ha tenuto una scomoda compagnia fino al 17 ottobre.
Questa è la “nomenclatura ufficiale”, ma vi sono alcuni italiani, che, dimostrando eccessiva fantasia, devono sempre fare di testa loro anche quando non ce n’è ragione. Tanto per complicare le cose ben fatte dai colleghi tedeschi, su un popolare sito di meteorologia online italiana, spunta fuori IKE, battesimo da sottoscala che - si dichiara - è stato suggerito da un ragazzino. IKE è dunque un “meteonimo” non riconosciuto dall’anagrafe ufficiale, ma purtroppo si propaga velocemente tra i malcapitati navigatori spandendo zizzania.
Torna ad inizio pagina SI POTEVA EVITARE QUESTO DISASTRO?    
No. E’ troppo facile chiudersi dietro i luoghi comuni delle responsabilità attribuite nelle discussioni da osteria. L’evento è stato prima di tutto un fenomeno naturale estremo, insito nella naturale evoluzione del territorio. L’intensità delle precipitazioni e la loro contemporaneità su un vastissimo territorio (contato a braccio, circa 10000 km2) ha determinato deflussi di piena che non potevano certo essere sconfitti dalla pulizia di qualche tombino intasato dalle foglie. L’ordinaria manutenzione fa miracoli nel caso di un temporale estivo, rapido e localizzato, ma quando c’è acqua dappertutto non è possibile impedire la crisi totale del reticolo idrografico né la fluidificazione dei suoli o l’attivazione di imponenti movimenti franosi. Le responsabilità umane nella gestione del territorio hanno in questo caso un ruolo non così significativo e limitato a livello locale e, in limitati casi, hanno agito da amplificatori di una situazione già critica: infrastrutture o case costruite in prossimità di alvei o in settori sotto frana e qualche locale esondazione per intasamento delle luci dei ponti. Diventa anche difficile dirimere le contraddizioni dei luoghi comuni: chi parla di disboscamento non sa che le nostre Alpi non sono mai state così ubertose come in questi ultimi 50 anni, a seguito dell’abbandono dello sfruttamento forestale, e comunque attacca chi invece suggerisce di tagliare gli alberi perché intasano le luci dei ponti. Ci saranno sempre alberi  che verranno sradicati dalle piene... Ricordiamo inoltre che se l’acqua defluisce rapidamente a monte, quando i fiumi sono già al colmo di piena, le esondazioni avvengono a valle. Si tratta ora, nelle future scelte di pianificazione, di valutare con oculatezza (e con non poche difficoltà) quali zone possono essere “sacrificate” quali salvaguardate creando “polmoni” che consentano all’acqua di espandersi e diminuire la sua energia distruttiva, ma nelle strette valli alpine, ciò non sarà mai possibile, così come evitare le colossali frane che abbiamo visto in Valle d'Aosta. Nella Valle del Lys sono stati coinvolti edifici risalenti al 1600... è un buon spunto di riflessione. 
Torna ad inizio pagina E' VERO CHE E' STATA COLPA DELLA FUSIONE DEI GHIACCIAI?   
No, è pura assurdità. Il presidente del consiglio Amato ha dichiarato che la piena nelle valli alpine è stata determinata dallo “scioglimento” (il termine non è corretto: il passaggio di stato da solido a liquido è la  "fusione"), dei ghiacciai, ritiratisi di oltre 100 m! Probabilmente non è stato bene informato. 
Il contributo della fusione glaciale all’onda di piena è probabilmente inferiore allo 0.1%. Pur in attesa di effettuare misure più dettagliate, si tenga presente che la superficie glacializzata in Valle d’Aosta è pari a circa 180 km
2 e in gran parte posta a quote superiori a 3000 m, ovvero dove la precipitazione è sempre stata a carattere nevoso durante l’intero evento (la quota neve oscillava tra 2800 e 3000 m secondo le fasi più o meno attive dell’avvezione di aria africana). Solo le porzioni frontali e le poche lingue vallive occupano quote fino a circa 2300 m con le sole eccezioni di tre grandi ghiacciai del Monte Bianco (non interessato da dissesti) che scendono a quota inferiore (da 2000 a 1440 m). 

Valutando in 50 km2 la superficie glaciale sottoposta a precipitazioni piovose (i calcoli esatti di questa area necessiteranno di lunghi rilievi cartografici al fine di planimetrare tutte le superfici glaciali al di sotto dell’isoipsa 3000 m), e stimando in 1 cm l’ablazione glaciale in 3 giorni, otteniamo un contributo da fusione glaciale pari a 0.5 milioni di m3, che distribuiti sui tre giorni critici (cioè 259200 secondi in termini di tempo) avrebbero potuto costituire un deflusso alla chiusura del bacino di circa 1.9 m3/s. La Dora Baltea a Tavagnasco ha avuto un colmo di piena maggiore di 2500 m3/s, il cui il contributo glaciale avrebbe rappresentato meno dello 0.1%.
Perché abbiamo stimato in solo 1 cm lo spessore di ghiaccio fuso dalla pioggia? La fusione del ghiaccio in presenza d’acqua non è così imponente e rapida come si penserebbe: non basta l’acqua a fondere, ma conta la sua temperatura. Infatti sono necessarie 80 calorie (335 joule) per fondere 1 grammo di ghiaccio, ed è chiaro che questa energia viene prelevata dall’acqua di pioggia. Se la temperatura della pioggia è elevata, allora c’è molta energia disponibile e il ghiaccio fonde rapidamente, ma se la temperatura della pioggia è prossima a 0° la fusione è quasi inesistente. Alla quota interessata dai ghiacciai, diciamo tra i 3000 e i 2500 m, la temperatura della pioggia era stimabile in non più di 3°C, quindi in media sul dislivello considerato, circa 1.5°C, ovvero ogni litro d’acqua era in grado di trasferire al ghiaccio non più 1.5 calorie (6.3 J). Un millimetro di pioggia equivale a 1 litro d’acqua per ogni metro quadrato, cioè 1000 g, ovvero, con temperatura di 1.5°C, 1500 calorie (6279 J), con le quali, dividendo per 80, è possibile fondere al massimo 18.8 g di ghiaccio. Su un metro quadrato 18.8 g di ghiaccio equivalgono ad uno spessore di appena 0,019 mm (circa 2 centesimi di mm). Facciamo ora piovere sul ghiacciaio 500 mm d’acqua alla temperatura di 1.5 °C: il risultato è pari a 500 x 0.019 = 9.4 mm.

Se poi la termodinamica è troppo difficile (anche se dovrebbe essere patrimonio culturale irrinunciabile di chi scrive di meteorologia), la semplice constatazione delle zone maggiormente interessate dai danni ambientali conduce ugualmente alla smentita: in Valle d’Aosta le vittime e le devastazioni sono state causate soprattutto da frane determinate dalla saturazione idrica dei suoli, dalla lubrificazione dei piani di scivolamento e dalle sottopressioni interne, in zone assolutamente libere dai ghiacci: Pollein e la Becca di Nona, Cogne-Lillaz, Gressoney-Weissmatten, St-Rémy-Gd-St-Bernard...

Torna ad inizio paginaE’ VERO CHE LA PIENA E' STATA CAUSATA DALL'APERTURA DELLE DIGHE?    
No. Le dighe sono fatte per trattenere l’acqua, non per rilasciarla. Non c’è ragione di aprire gli scarichi di fondo di una diga, salvo nel caso la stessa sia gravemente lesionata e minacci il collasso. Semplicemente, la diga svolge un ruolo positivo durante un’alluvione fino a che non è piena, invasando acqua ed evitando che vada ad incrementare la portata idrica a valle. Poi, una volta riempita, si comporta come una vasca da bagno, dal troppo-pieno (che correttamente si chiama sfioratore) esce esattamente quanto entra a monte.
Torna ad inizio pagina LA PROTEZIONE CIVILE HA FUNZIONATO?    
Rispetto agli eventi precedenti, la macchina dei soccorsi ha funzionato con grande tempestività ed efficacia. Le strutture territoriali si sono attivate prontamente, l’informazione è circolata, la prima alluvione “online” ha consentito anche alle singole amministrazioni locali di seguire su Internet l’evoluzione del fenomeno meteorologico. I volontari erano allertati e al lavoro già dalla prima mattina di sabato 14. 
Torna ad inizio paginaLE PREVISIONI ERANO CORRETTE? SONO STATE DIFFUSE OPPORTUNAMENTE?    
Sono stati Claudio Castellano ed Enrico Pangallo, a presentare Josefine agli italiani, nel primo pomeriggio di venerdì 13 ottobre 2000, etichettandola subito come bambina molto cattiva in un bollettino meteo online su www.nimbus.it e su www.comune.torino.it, oltre che ad inviarlo - sempre a titolo gratuito - ad una mailing list di circa 700 abbonati.
La situazione delineata dai modelli BOLAM (CNR-ISAO, Bologna) e LILAM (CMIRL e Dip. Fisica Università, Genova), che già in occasione delle intense piogge del sabato 30 settembre si erano dimostrati assai affidabili, ha destato notevole preoccupazione al punto di far ritenere opportuna la diffusione di un messaggio d’allarme. I bollettini emanati riportavano pertanto esplicitamente il rischio di alluvione e alle ore 16 veniva informato il quotidiano “La Repubblica”, redazione di Torino affinché predisponesse un annuncio, al quale fu dato grande risalto, ed uscito al mattino successivo (sabato 14 ottobre, alle ore 8 in edicola), ancora in tempo utile per informare la popolazione. 
Gli organi istituzionali, attraverso le prefetture, diffondevano, alle h 13 di venerdì 13 Ottobre, un messaggio più moderato, con i codici 2 (in una scala da 1 a 3) per il Piemonte settentrionale e il codice 1P (preallerta, appena superiore all’ordinaria attenzione) per i bacini delle Valli Orco, Lanzo e Dora Riparia. 
All’alba di sabato 14 la situazione idrologica nelle valli occidentali era tuttavia già critica: colate detritiche ed ingenti incrementi di portata dei torrenti interessavano la media valle di Susa, la zona alla base del Rocciamelone e Moncenisio, le Valli di Lanzo e Orco e la valle d’Aosta. Alle ore 13 il torrente Orco terrorizzava la sua valle, uscendo dal letto: alle  alle 13:10 la frazione Rosone era già distrutta; alle 13:45 la piena invadeva Sparone; alle 14:00 crollava il ponte di Robassomero  sulla Stura di Lanzo e si sviluppava l'incendio dell'annesso metanodotto;
Il bollettino istituzionale con il codice 3 di allerta per questa zona veniva emesso alle ore 13 di sabato 14 ottobre.
Venerdì sera, invano si è atteso un annuncio sul maltempo in arrivo, da parte della rete televisiva regionale, la più adatta a diffondere questo tipo di informazione. Il bollettino meteorologico delle ore 19:30, sempre con gli occhi foderati dal prosciutto che pubblicizza in apertura, annunciava un banale “piogge sparse con schiarite nel pomeriggio”.
Torna ad inizio paginaE' VERO CHE LE PRECIPITAZIONI HANNO SUPERATO I 700 MM IN 4 GIORNI?
Si, è vero. Non ci sono errori di lettura ai pluviometri o di trascrizione. Le precipitazioni si sono differenziate in tre aree con quantità ed intensità diverse:
  • Pianura Torinese, Biellese e Vercellese: 150-250 mm
  • Fascia prealpina tra Valle Po e Verbano, Valle d’Aosta: 
    250-450 mm
  • Valli alpine occidentali con testata a quote >3000 m e Ossola:
    600-700 mm
  • Settori intralpini (alta Valle di Susa e Monte Bianco) 100-150 mm.

I valori più elevati sono stati raggiunti nelle Valli di Lanzo, dove il pluviometro UIPO installato alla Centrale elettrica di Piansoletti ha raccolto da venerdì 13 ottobre a lunedì 16, 720 mm; in Valle Orco, con oltre 600 mm a Ceresole Reale e Noasca; e ancora 735 mm sono stati misurati dalla stazione automatica della rete regionale sita a Bognanco, a ovest di Domodossola.
E’ inutile lanciarsi ora in frettolose definizioni di eccezionalità. Chi conosce i metodi di statistica climatologica sa che bisognerà attendere il reperimento e lo spoglio di tutti i dati disponibili (non solo quello delle stazioni automatiche in telemisura della rete regionale che hanno consentito una rapida ed efficace comunicazione dei dati, ma rappresentano solo una porzione del territorio; esistono molti altri pluviografi e pluviometri i cui dati capillari consentiranno una più dettagliata costruzione della carta delle isoiete e la valutazione del solido di pioggia. Non abbiamo peraltro ancora dati dalla martoriata Valle d’Aosta).
L’impressione “a umido” è che i valori dell’ordine di 700 mm abbiano sforato i massimi noti per la somma di 3-4 giorni consecutivi, anche se non mancano in passato quantità confrontabili (sia l’evento del settembre 1993, sia quello del novembre 1994, per esempio, presentarono valori massimi di circa 600 mm), tuttavia, l’elemento di eccezionalità sembrerebbe la vasta estensione contemporaneamente interessata da piogge così abbondanti ed intense, che nelle precedenti alluvioni erano risultate limitate a singoli scrosci isolati.

 

  
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